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Narrativa

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Pubblicato il 18/04/2017

Del mese di luglio del 1992...

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Del mese di luglio del 1992 mi ricordo il cielo bianco e l’afa di Milano, l’aria appiccicosa e immobile, gli esseri umani che stavano fermi e un grande andirivieni di topi. Una sera, poco prima dell’ora di cena, si scatenò un temporale, uno di quei temporali estivi che sbattono le porte e le finestre e fanno cadere gli alberi. Per dieci minuti la pioggia inondò le strade, le case e le cose, poi si fermò. Ricordo che dopo avere controllato il cielo, mio fratello decise di uscire. Al centro sociale Leoncavallo, che allora stava in via Leoncavallo, doveva esserci il concerto di un gruppo punk su cui, oggi, non riesco a essere più preciso. Ritornò a notte fonda con un virus misterioso.

Il mattino successivo aveva una febbre medievale e sul corpo gli era comparso uno sfogo che nel giro di una settimana gli avrebbe fatto perdere la pelle a brandelli. All’inizio si staccò quella sotto le mani e i piedi, poi tra le dita, intorno al naso, sotto i capelli. Veniva via a strati, spessi qualche millimetro, e grandi come fazzoletti. I medici non sapevano niente, parlavano vaghi, ma la febbre non scendeva e gli esami del sangue erano abnormi, fuori da ogni sintomatologia conosciuta. Lui aveva raccontato che quella notte al Leoncavallo faceva caldissimo e un sacco di gente ballava con i piedi nell’acqua, perché la pioggia aveva allagato la sala. A volte diceva frasi sconnesse. Mia madre era molto preoccupata. Lui aveva paura.

La terza mattina decisi di uscire. Alla fine del mese avevo un esame, filosofia della politica, credo, un corso monografico su Sorvegliare e punire di Foucault. Lo so perché ricordo che, studiando, non potevo impedirmi di accostare le condizioni di mio fratello alle descrizioni degli scorticati vivi del libro. Camminai fino ai Giardini di Porta Venezia. Scelsi una panchina dietro il Museo di Storia Naturale, proprio davanti a uno dei canali laterali da cui defluisce – o confluisce – l’acqua del lago centrale. Il parco era quasi deserto. Notai che in piedi vicino alla staccionata c’erano due uomini anziani e che stavano parlando tra loro, come aspettando qualcosa. Uno si girò a osservarmi. Tirai fuori il libro e incominciai a studiare, dopo essermi acceso una sigaretta. I loro discorsi si mischiavano ai supplizi di cui leggevo nel libro.

– Ho letto che in Italia ce ne sono 500 milioni.

– Dieci per ognuno di noi.

Alzai gli occhi dal testo. Anche il secondo si voltò a osservarmi. Allora abbassai lo sguardo per posarlo sul terreno al di là della staccionata. Qualcosa di scuro si mosse. Un grosso ratto nero camminava sulla sponda, indifferente alla presenza dell’uomo. Voltò la testa e per un istante mi osservò anche lui, poi si tuffò nel canale.

– Ha notato che non ci sono anatroccoli?

Il pensionato si stava rivolgendo proprio a me. Quello di fianco sorrise con tenerezza, come si fa con i neonati.

– Si sono mangiati le uova. Lo sa come fanno?

Scossi la testa. Non ne avevo la minima idea.

– Uno si sdraia sulla schiena e prende l’uovo, stringendolo sulla pancia tra le zampe.

– E gli altri lo trascinano nella tana per la coda.

Ora li vedevo anche io: erano intorno al canale, alla base degli alberi, sui prati, tra le panchine. Decine di ratti scuri con le code rosa come la pelle, andavano e venivano, compiendo gli stessi percorsi, tracciando sul terreno un intrico di strade per lo più rettilinee, ripetitive, da cui non si allontanavano mai. Alcuni arrivavano a nuoto. Uscivano da una grata in cui il canale spariva sottoterra o ne uscivano, si arrampicavano sulla riva, raggiungevano l’albero, tornavano indietro, in cerca di cibo.

– Sono intelligentissimi, lo sa?

Mentre osservavo i ratti e mi istruivo sulle loro abitudini, oltreché sulle specie diffuse in Italia – mus musculus o topo domestico; rattus rattus o ratto comune; rattus norvegicus o ratto delle chiaviche –, si aggiunsero altre persone. Per lo più erano anziani, altri erano più giovani. Comparve anche una ragazza sui vent’anni, bionda, bellissima, che portava pantaloncini da ciclista verde fosforescente. Mi spiegarono che si ritrovavano ogni mattina e che ciascuno di loro, a casa, di notte, studiava per fare bella figura.

– Mi ha detto mio cognato che lavora in Comune che è per via di Tangentopoli. Non hanno assegnato l’appalto per la derattizzazione. Hanno arrestato quello che pagava le tangenti.

In quei giorni imparai che la vita di un ratto dura fino a tre anni e che la loro società è organizzata in colonie guidate da maschi dominanti. Per corteggiare le femmine i maschi piangono perché con le lacrime secernono ferormoni. I più apprezzati cercano il contatto con i gatti, perché portare addosso il loro odore li fa apparire coraggiosi. Alla nascita sono ciechi e nudi.

– Dopo cinque settimane di vita si accoppiano.

– E partoriscono dopo 21 giorni.

– Hanno calcolato che in nove anni una coppia può generare 2 milioni 197 mila individui.

In nove anni i due ratti che stavo osservando mentre si annusavano il naso, avrebbero formato la popolazione di una città grande come Milano. Il giorno dopo tornai, e tornai nei giorni successivi. I ratti continuavano a esistere, incuranti degli uomini, ma la nostra comunità si allargava. Ormai ci salutavamo per nome. E ognuno illustrava le sue scoperte notturne.

– Il dna dei topi è per il 97,5 per cento identico al nostro.

– Nella Bibbia non sono mai menzionati.

– Nelle caverne preistoriche non sono stati trovati ossi di topi.

– Si sono diffusi con l’agricoltura, quando comparvero i primi granai.

Ogni giorno si aggiungevano altre persone, non più solo anziani. Arrivarono studenti, operai del Comune in tuta da lavoro, mamme con il passeggino, manager socialisti in abito gessato e ventiquattrore. Veniva sempre anche la ragazza bionda. Appoggiava la bicicletta a una panchina e guardava in silenzio. Non riuscii mai a conoscerla. L’argomento di cui si discuteva di più era il Re dei topi. Non eravamo sicuri che esistesse davvero. Si dice che ogni tanto un ratto femmina partorisca una nidiata unita per la coda, anche da quindici ratti che allattano e crescono, diventano adulti, e si muovono insieme, ruotando su se stessi e divorando tutto quello che trovano. Era il fantasma che ci univa e che anche i più scettici cercavano. Osservando il loro andirivieni indifferente, tutti desideravano vederlo apparire. Dopo una settimana eravamo un centinaio e nessuno si domandava quando l’incantesimo sarebbe finito. Ogni tanto, tornando a casa per pranzo, immaginavo che di giorno in giorno l’intera città si sarebbe progressivamente fermata per osservare il proprio riflesso nella vita dei topi. Una mattina mio fratello si svegliò senza febbre. La pelle incominciava a ricrescere. L’esame era la settimana dopo e non avevo studiato. Decisi di rimanere in casa. Di notte arrivò un altro temporale. Il giorno dopo al canale non c’era nessuno.

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di Giacomo Papi

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