Alice stava finendo quel maledetto esercizio. L’indomani il professor Giraud l’avrebbe senz’altro interrogata e doveva recuperare un’insufficienza. “Come è possibile Alice?”, aveva chiesto Giraud quel giorno, “sei la migliore della classe, non puoi deludermi anche tu”.
Aveva alzato la testa verso l’orologio. Le 18.30. A quell’ora avrebbe dovuto essere già a casa. Aveva messo via il libro di fisica e si era spostata in cucina. Sua madre mescolava la zuppa sul fuoco. “Prendi i piatti dalla credenza e chiama tua sorella, tra poco si mangia”.
Le 19. Alice guardava dalla finestra della cucina che dava sul cortile. Sperava che dal buio della strada apparissero i fanali della Renault 4. “Alice, vieni”.
Alice girava il cucchiaio nel piatto. Odiava la Soup à l'oignon. “Questo offre il ristorante oggi”.
Guardava sua madre con incredulità e insofferenza. Sembrava che tutto fosse normale per lei. “Alice, se non hai fame mi aiuti a sparecchiare e poi torni a studiare”. Senza dire una parola Alice si era alzata, aveva sparecchiato e lavato i piatti.
Le 19.30. Nessun fanale, nessun rumore di auto, nessuno scatto di serratura.
Le 21. Esercizio di fisica finito, cartella pronta, vestiti puliti per il giorno dopo tirati fuori dall’armadio.
Alice aveva ormai capito come sarebbe andata a finire.
Dalla porta della sala vedeva sua madre, come sempre, seduta sulla poltrona di pelle color testa di moro e intenta a leggere un libro. “Mamma” “Buonanotte Alice”.
Alice la guardava stringendo i pugni. Doveva tornare lì, ancora una volta.
Aveva messo un maglione sopra il pigiama, tirato fuori il cappotto e gli stivaletti. Aveva esitato un attimo. Quel cappotto le piaceva così tanto. Non si poteva fare altrimenti, faceva troppo freddo.
Camminava piano, la strada era gelata e ripensava al compito di fisica e alla cena saltata.
Era arrivata davanti a quell’insegna sbiadita. I pugni di nuovo stretti.
Un sospiro prima di tirare a sé la porta. Auguste, intento ad asciugare un bicchiere dietro il bancone, si era subito accorto di lei e le aveva fatto un cenno per guidarla nella giusta direzione. Un altro lungo sospiro e i pugni sempre stretti.
Accasciato su una sedia in un angolo, sembrava una foglia secca accartocciata su stessa.
Alice allora aveva sciolto i pugni per sollevargli la testa piano e appoggiarla con cura all’altezza delle scapole, poi aveva preso il braccio e lo aveva fatto girare sopra le sue spalle. “Al tre ci alziamo, ok? Ti tengo io”. Aveva aperto gli occhi e l’aveva guardata biascicando qualcosa.
Forse un mi dispiace. O forse un lasciami qui.
La strada verso casa sembrava una via crucis senza rosari da sgranare. Ma era riuscita a non sporcarsi il cappotto. Erano ormai arrivati quando un abbraccio l’aveva colta di sorpresa. Proprio come fa un padre con la propria bambina. Lui, con il suo bel completo elegante, con quella cultura sconfinata che lo rendeva tanto affascinante agli occhi di tutti, ma, prima ancora, agli occhi di sua figlia. Lei, che lo amava convinta che non ci fosse nessun nonostante.
Ed ecco, all’improvviso, una sensazione che pian piano diventava certezza. Il cappotto umido e caldo. Ciò che si era liberato dalla vescica si era portato via anche quel briciolo di dignità rimasta.
Sua madre era ancora seduta a leggere.
Alice si sarebbe accorta solo anni dopo che era ferma alla stessa pagina.