È ancora buio quando salgo in barca. Mario non è ancora arrivato e ne approfitto per riporre le vivande sotto il timone, sistemare l'attrezzatura in modo che sia pronta all'utilizzo e ripulire grossolanamente la barca, che risente ancora della pesca di ieri.
Sollevo il foderone di gomma e controllo una a una tutte le barbe del palangaro. I braccioli sono puliti, il cavo è ripiegato bene, alcune barbe sono storte ma ben funzionanti.
Sarà una bordata lenta e faticosa oggi, come tutte le giornate dove il libeccio ti arrossisce il coppino.
Il mio gozzo, bianco e azzurro, nonostante una settimana di calafataggio in rimessa porta irremediabilmente con sé odori salmastri e appiccicosi, l'aspro connubio tra il sale del mare e il viscido dei pesci, mischiati ad anni di sudore e bestemmie.
Passo la mano sullo scafo a lato, per sentire le alghe oramai tutt'uno con l'imbarcazione, mio solito rito di inizio lavoro, piccola preghiera laica, dolce carezza al mio destriero acquatico e timido bacio alle entità marine, qui rappresentate da alghe e muschi incancrenitesi sulla vernice.
Immergo la mano sinistra in acqua, per sondarne la temperatura e poi ne getto qualche goccia sul timone, mio personale battesimo a questa giornata di pesca.
In mare fede e superstizione sono una cosa sola, penso, mentre tocco il crocifisso di legno appeso a babordo.
Vado a prua e con un piede fermo sul bordo mi spingo a controllare la gomena, per verificare che sia ben salda. La gassa è ben ferma e ripenso a tutte le ore in barca spese ad insegnare a mio figlio Mario i principali nodi marinari, durante i nostri ritorni in porto col pescato del giorno.
Mentre mi dirigo a poppa, inciampo nell'ancoretta, maledetto arnese che da anni resta inutilizzato sulla barca. Di totani e gamberi neanche l'ombra da parecchio tempo.
Poco più in là sento il vociare di altri pescatori, accompagnato dallo sciabordio delle leggere onde portuali che quasi con vergogna si infrangono sulle imbarcazioni presenti.
Dopo decenni in mare, sento la salsedine persistente nelle narici, le mie ossa sono perennemente umide, come immerse a bagnomaria nell'acqua salata. Lo scricchiolio delle nasse qui attorno a me e il dondolio delle imbarcazioni, che sbattono nelle primissime ore del mattino sono suoni costanti della mia vita.
"La tua barba puzza di alghe" mi disse una volta mia figlia. Ma la mia barba è fatta di alghe, muschio marino e spugne acquatiche, nient'altro che questo.
Dopo quarant'anni in barca passati a pescare ho i calli delle mani che portano con sé il profumo delle tempeste affrontate e la durezza della vita in barca. Noi pescatori ci riconosciamo da lontano, pelle bruciata dal sole, mani forti e nodose, occhi stanchi sempre in movimento, in cerca di qualcosa, gambe saldamente ancorate a terra. Parliamo poco, noi pescatori, pur avendo un vocabolario tutto nostro ed estremamente ricco non siamo gente ciarliera. Frequentarsi tutti i giorni per venti ore al giorno in uno spazio di dimensioni ridotte non aiuta.
Mio figlio Mario fa il pescatore da qualche mese, ci mette impegno e voglia di imparare, ma per lui è un lavoro stancante, dato il suo fisico ancora gracile, ma ancora qualche mese e il mare lo avrà formato come si deve.
Finalmente lo vedo arrivare, è tardi ma me ne farò una ragione.
Il suo fisico magro, la camminata ciondolante, i piedi strascicati e lo sguardo assonnato, non si direbbe una forza della natura. Ma il mare lo sta cambiando e un giorno questo gozzo sarà suo.
Si avvicina alla barca con il thermos del caffè, si ferma sulla banchina e me lo passa in mano. Lo guardo con fare interrogativo.
In quel momento i primi freschi raggi di sole illuminano le pupille di mio figlio, mentre mi guarda dritto negli occhi: "Papà, nun voglio cchiu' fa' o' pescatore".