Il cartello "Cernusco S/N m2" sgocciola, dal chiarore del suo sfondo verde, sul parcheggio scuro e quasi vuoto; se ci fosse luna non cambierebbe granché, gli alberi sono rigogliosi e alti tanto da coprire perfino i lampioni.
Sono uscito dai tornelli appena in tempo per sentire l'ultimo treno che lascia la stazione in direzione Gessate, l'agente di stazione ha già serrato quasi tutti i varchi e se anche il bar-tabacchi-biglietteria è chiuso da un pezzo, persiste un leggero aroma di caffè.
Accendo una delle poche sigarette rimaste, l'agente di cui sopra mi guarda un po' storto ma non dice nulla. Io e i pochi esuli di questo martedì sera ci disperdiamo lungo l'interminabile viale Assunta, chi verso Pioltello, chi verso il centro di Cernusco. L'ultimo autobus è verso le 19, non c'è speranza. Abbiamo tutti lo sguardo basso e le occhiaie, c'è chi parla al telefono, c'è chi mette le mani in tasca, c'è chi apre un ombrello malmesso. Ho l'impressione che il dio della solitudine abiti da queste parti.
Poche auto di passaggio, qualche schizzo dalle pozzanghere, piccoli cerchiolini concentrici sulla superficie del pianeta. La notte ingoia il nonsense alle mie spalle picchiettando sul cappuccio in sintetico della mia giacca a ritmo irregolare. Strisce consumate sull'asfalto e il semaforo arancione della statale, villette e palazzine giacciono nel buio silenzioso che insinua la sua sostanza fin dentro le ossa, come l'umidità.
Immagino bambini zingari che scalzi giocano nell'acqua, vedo i colori dei loro occhi e i sorrisi sui visi sporchi. Immagino violini e una tenda dove offrono arrosto e da bere e c'è una sposa e gli ubriachi cantano; le camicie sono aperte sui petti a mostrare catene e peli, monili e tette. Le donne ridono. E poi immagino un circo ma è solo un tentativo maldestro di resistenza, un cucciolo di fronte a un Grizzly, uno stanco ritornello che insegue la sua parodia per il viale della commedia.
Via Mantegna presto profumerà ancora di gelsomino e kebab, per ora resta anch'essa indolente nei suoi paracarri verdi e gialli. Ho i piedi zuppi già da tempo, il calzino destro è scivolato a metà pianta, il sinistro sembra reggere meglio ma non saprei dire per quanto ancora. Oramai è inutile preoccuparsi, così come sarebbe inutile affrettare il passo, tanto più che le dodici ore di turno recitano il loro rosario sui quadricipiti femorali e poi giù, fino al calzino destro e all'alluce.
A casa ci sarà una doccia calda da fare in silenzio e una birra fresca in frigo, da bere in altrettanto religioso atteggiamento; per ora solo un'altra sigaretta e il tempo di memorizzare un accapo geniale letto da qualche parte.
Penso che nella vita non fa differenza, il dove.
Penso che in certi casi siamo tutti soli quanto l'una e con appena un briciolo di speranza; d'altronde la strada è quella ed è lunga, avere fretta non aiuta, e nemmeno tutta questa miseria o tutto il nostro amore: Via Milano non si è mai mossa e neppure lo farà. All'altezza del quartiere Satellite ho ancora molti passi da fare, ma meno di quelli già fatti; non importa quanta pioggia vien giù.