Il nugolo abbandonò il peschereccio, sfrecciò sul litorale e con un volo a planare si diresse verso le cime merlate del Grand Hotel, dove Jay era entrato qualche ora prima, in cerca del Capitano. Gli era giunta voce che il compare, dopo un lungo periodo di assenza, era rientrato ad Ariminum già da alcuni giorni, fermandosi nella solita camera; ma non si era ancora fatto vivo alla Fortezza Bastiani. La vodka serale con gli amici nell'enorme lounge bar simile a un gompa, un tempio buddista tibetano – e per loro altrettanto sacro – era un rito cui non mancava mai di presenziare nei periodi che trascorreva a terra: la sua latitanza era inspiegabile.
Soprattutto per Jay, che con il Capitano aveva una relazione di lungo corso, nonostante la differenza d'età. Per lui, nemmeno trentenne, il vecchio pirata era una specie di padre putativo. Quante ne avevano passate insieme nei locali notturni del centro, sulle colline o in spiaggia, sempre con belle donne, compagni allegri e fiumi di vodka! Anche se una sottile inquietudine aveva cominciato a pervadere l'animo dei due amici prima che il Capitano prendesse il largo (ormai erano trascorsi più di due anni): la faccia oscura di quella dolce vita stava facendo capolino sull'orizzonte della loro coscienza.
Aveva provato questo sentimento con particolare forza nel corso delle ultime ore passate insieme. Dopo l’ennesima festa in una villa sul litorale ariminense, la comitiva si era incamminata verso il porto, all’alba. Si era fermata davanti a un cetaceo spiaggiato, in decomposizione. Il Capitano cominciò a disquisire sulle differenze fra Leviatani: «la Balena dal Naso a Bottiglia, la Balena a Testa di Torta, la Balena Promontorio, la Balena Pilota, la Balena Cannone, la Balena di Rame, la Balena Burgundi, la Balena Azzurra, la Balena Scheletro, la Balena Vampiro, la Balena Elefante...», ma l’attenzione di Jay venne catturata da un'altra voce: quella di Mary, una ragazza conosciuta qualche giorno prima al Mocambo, il bar del Grand Hotel, che lo chiamava. Si stava allontanando su un motoscafo; anche se il motore era al minimo, a Jay arrivò solo una raffica di vento su cui volava il suo nome.
Nel frattempo, le risate del party avevano lasciato spazio alla stanchezza. Era come se i raggi del Sole nascente facessero evaporare non solo i leggeri strati di neve caduta in nottata, ma anche i piaceri con cui quei vitelloni cercavano di colmare il proprio vuoto interiore. Jay capì che non c’era differenza tra loro e l'animale che si putrefaceva sulla battigia.
Mary, invece, gli apparve con la forza della giovinezza, dell’innocenza: l'annunciazione della possibilità di cambiare vita, di intraprendere una purificazione. In quel momento incarnò tutto ciò che c’era di positivo nella Vita, nell’Universo e in tutto quanto. Ricordava con chiarezza la postura fiera del collo, la fronte alta, le fossette, le sopracciglia leggermente innalzate. Nella mano sinistra teneva un libro, mentre con la destra faceva un gesto di sorpresa. I riflessi di luce rosata sull’acqua ne incorniciavano la testa con una specie di aureola.
Jay le gridò: «Mary, come here! Vieni, scendi, resta con noi! Partiamo insieme domani con il Capitano!».
Il Maestrale che si stava alzando e il rumore delle onde ne coprirono le parole. Lo sguardo dispiaciuto della ragazza gli comunicò che avrebbe voluto rispondere ma non poteva, non aveva sentito e comunque troppa era la distanza che li separava. Riuscì solo ad agitare le braccia in un saluto che si concluse con un’alzatina di spalle, di scusa, come a dire “non è colpa mia, non ci posso far nulla”.
Il giorno successivo il Capitano levò l'ancora. Lui restò ad Ariminum, nella speranza di rivedere Mary – che non incontrò mai più. I due uomini si erano salutati dandosi appuntamento alla Fortezza Bastiani. Ma quando il lupo di mare era tornato si era reso irreperibile.
Jay perciò aveva deciso di mettersi nei panni di Maometto e di andare lui alla montagna, per sciogliere il mistero. Se la ricerca non avesse avuto esito, si sarebbe consolato con l’ottima vodka bianca specialità del Mocambo. Come capita spesso ai musicisti, aveva molte conoscenze, frequentava gente di ogni genere, era benvoluto da tutti gli uomini e adorato da molte donne: con la bottiglia, però, aveva una relazione speciale.
Alto, biondo, gli occhi più turchesi delle acque che bagnano la Spiaggia Iperurania, un fisico poderoso reso tonico dal continuo esercizio fisico che è richiesto ai suonatori di batteria (anche se, per sbarcare il lunario, insegnava Storia dell’Arte nell’istituto speciale per persone con deficit psichici o affette da malattie mentali – il manicomio, insomma), il giovane aveva dunque varcato con passo elastico l’ingresso di quel posto magico che Federico Fellini considerava l’incarnazione di tutte le fantasie di opulenza sorte nella storia dell’umanità.
Sintesi architettonica di Istanbul, Baghdad, Roma, Hollywood, il Grand Hotel offriva uno spettacolo titanico. I muri più immacolati dei ponti di una nave da crociera; i mobili francesi stile impero color tabacco, massicci ed eleganti come le banchine in palissandro dello Yacht Club di Ariminum; i divani beige, enormi barche immobili nella calma piatta dell’immensa hall; la guida fiammeggiante che saliva curvando di bolina stretta sulla gradinata di marmo verso i fari sfolgoranti delle vetrate policrome; le finestre ovali in stile liberty, oblò che aprivano scorci di Cielo fra gli alberi del parco… Era facile capire perché il Capitano avesse scelto quello come porto in cui rifugiarsi quando rientrava in città.
Ma Jay non aveva avuto tempo di soffermarsi sui dettagli dell’arredamento: giunto alla reception, era stato rapito dalla ragazza seduta su uno sgabello Kant nero molto alto alla maniera di Absolem, il Brucaliffo di Alice, sul suo fungo. Era vicina alla seggiola vuota del concierge (una sedia Tipo B di Carlo Mollino). A differenza del Bruco, aveva la testa china su un iPad Pro; simile a quello, invece del narghilè, con la mano destra reggeva una sigaretta fumante.
La donna sull’alto sgabello. Valeva la pena di osservarla. Avvolta nella luce pulviscolare che sgorgava da una bifora, sembrava una pin-up anni Sessanta ritratta da Paul Signac per la copertina della versione erotica di un romanzo di P.K. Dick. Era una di quelle bellezze che portano guai.
Si potrebbe obiettare che tutte le donne portano guai, ovunque. Soprattutto in luoghi pubblici come terme, palestre, osterie e alberghi, sostiene con ottime ragioni Quintiliano. Bisognerebbe tenerlo a mente anche nelle occasioni in cui l’attenzione si focalizza su alcuni fattori di rischio. Nel caso specifico, due: le sue gambe. Tempestate di tatuaggi etnici, o simboli algebrici, si accavallavano sotto una minigonna inguinale di Patrizia Pepe stretta al bacino da una cintura artigianale di pelle nera. Le ginocchia erano morbide, i polpacci torniti, le caviglie sottili e i piedi, scalzi, piccoli e delicati. Le unghie dipinte con smalto di un blu Tiffany identico a quello del cuoricino appeso a un braccialetto che batteva vicino alla caviglia sinistra. Erano gambe così espressive che Jay si rivolse a loro per sapere dove fosse il Capitano.
«Hai il torcicollo?» lo apostrofò lei, con un accento slavo, dalla vetta del trono su cui era assisa.
Lui sollevò la testa. Diresse lo sguardo sopra il lungo banco che aveva l’onere atlantico di farle appoggiare i gomiti. In legno massello, era sorretto da colonne di pietra lavorate a tralci di vite attraverso cui li spiava un Cupido bronzeo, mentre un altro si parava gli occhi con l’ala – paffuti e capelloni, gli amorini erano ispirati a quelli celebri di Vermeer.
Jay si sentì mancare. «Il battito cardiaco era schizzato a mille, mi reggevo a malapena in piedi, non riuscivo a respirare, la salivazione era azzerata» raccontò poi al Maestro, nel corso di una seduta al Tomografo di Pet per verificare la gravità del suo livello di innamoramento. Una vertigine da Grande Bellezza, un attacco di Sindrome di Stendhal, un malessere da Capolavoro? Per un attimo credette di trovarsi davanti all’opera di un Artista Dannato: un’immagine virtuale creata da uno dei leggendari personaggi che si diceva vivessero nascosti fra le dune della Spiaggia Iperurania. Ma c’era qualcosa di indefinibile nell'apparizione, una nota falsa che gli fece scartare l’idea – una levigatezza eccessiva, quasi disumana, se non del tutto aliena: come quella dell’iPad che teneva appoggiato su una coscia, o dello Stealth, invisibile portatore di morte, o del monolite nero di Kubrick.
La bambola lo rimirava dall’alto in basso, dominandolo con uno sguardo verdeazzurro tanto splendente che sembrava piena d’occhi all’intorno e di dentro. Aveva anche un bel seno a goccia, con un volume maggiore nell’area dei capezzoli, che s’intravedevano sotto una camicetta di un rosso Valentino acceso – la stessa tinta dei lunghi capelli attorcigliati che le conferivano l’aspetto di una bellissima Medusa postmoderna. Sul petto riposava un ciondolo con il nome, Daisy, inciso in un’albicocca brillante sulla lacca cioccolatosa della base, guarnita con pietruzze color melagrana. «Just a nice dolzmörs» (il famoso dessert ariminense), la definirà, assistendo a quella stessa seduta al Tomografo, Tim O’Nan, il Custode, nello slang colorito dei bassifondi che gli era usuale. «Better, a single dish, un piatto unico… ideél per na’ claziòn lest, ideale per una colazione veloce. Sveltina, cam dit voialter, come dite voialtri».
Jay si schiarì la gola e riformulò la richiesta. «Cerco il Capitano. Sai dove posso trovarlo?».
«Tu chi saresti?».
«Mi chiamo Jay. Jay Arthur Cab».
«Come a dire?».
«Come a dire cosa?».
«Cab. Sei un taxista?».
«Ah, ah, ah». Troppo tardi Jay si accorse che non era una battuta. «No, non sono un taxista. Vorrei parlare con il Capitano. Sai dov’é?».
Chissà per quale motivo la ragazza trovava tanto difficile rispondere a quella domanda. Si augurò che la terza volta sarebbe stata quella buona, prima che la conversazione si avvolgesse nelle spire di un andamento ciclico, proprio come accade ad Alice quando Absolem le chiede: «E tu chi sei?».
Daisy prese un dépliant da una pila accanto a un busto di Bruto con l’espressione terrorizzata di chi ha visto uno spettro. Il foglietto riproduceva la mappa della palestra del Grand Hotel e riportava una frase in antico ariminense: Omnia gym divisa est in partes tres. Glielo porse. Quindi lo liquidò con un vago gesto della mano e uno sbrigativo: «Da quella parte».
L'esploratore si avviò verso l’interno. Imboccò la rampa di scale a chiocciola che conduceva alla catacomba sottostante: un dedalo di sale grandi e piccole, docce, saune, bagni, spogliatoi, vasche per l’idromassaggio, camere attrezzate con strumenti dall’aspetto allarmante. I locali si articolavano nel modo in cui lo fanno le declinazioni del Tempo nella mente di Dio, dove il passato e il futuro si perdono nelle eternità del presente: poiché la mente di Dio è unità costante di pensiero e non successione di pensieri. Simultaneità, non consecutivo ordinamento di idee.
Jay così non avrebbe saputo dire per quanti minuti – ore? – andò errando per quegli spazi, vasti come l’immaginazione divina, che non può essere riconducibile alla miserabile parola “tutto”.
Ogni creazione è infinita produzione di infiniti: questa Verità gli si presentò con cartesiana evidenza quando si rese conto di essere tornato al punto di partenza, davanti alla scala a chiocciola, senza aver trovato traccia del Capitano. La ricerca rischiava di protrarsi a lungo, se non di trasformarsi in un loop senza fine. Pazienza: forse l’amico quella sera si sarebbe deciso a raggiungerlo alla Fortezza Bastiani, dove ci sarebbero stati anche il Piccolo Ed, il JubJub e tutti gli altri. Avrebbero festeggiato il sessantesimo compleanno del Maestro. Non si sarebbero persi l’evento per nulla al mondo: vodka, assenzio e dibattiti metafisici fino al mattino erano garantiti. Per non parlare del resto. Ancora tutti ricordavano di quando, durante i festeggiamenti per i cinquant’anni di Earnest, il Pescivendolo, celebrati con uno scialo da far impallidire un Trimalcione, il Maestro era stato costretto a esibirsi sul palco del locale nudo insieme ad alcuni “puttini” che gli mordevano il sedere. O il numero in cui si era cimentato il Custode: una serie di flatulenze operistiche che, ad ogni arietta, gli sollevavano la coda della finta pelle di animale che indossava.
Inoltre, dopo aver visto la ragazza, non era in vena di misticismo. Fece dietro front e tornò da lei.
Quella stessa sera, sui gradini all’ingresso del Grand Hotel, Jay e Daisy ballarono un fox-trot di Bruce Springsteen: per ore, sulle note di una musica che sentivano solo loro e alla formazione della quale partecipavano insieme alle piante del parco, dirette da un contorto ficus Bodhi rosso. Connessi alla vita segreta del giardino erano Viola e Cosimo, Tarzan e Jane, Adamo ed Eva – nel sogno perenne degli alberi, indifferente all’avvicendamento circadiano veglia-sonno, all’espandersi e al contrarsi dell'Universo, all’alternanza di Yin e Yang. Le conifere cantavano. I bossi si scambiavano melodie. I semi prendevano decisioni sulle chiavi da usare. Il Wood Wide Web delle radici dettava lo spartito, dava il via agli assoli, controllava il Tempo e lo Spazio. Il ritmo della jam session era quello del pulsare delle onde sulla battigia, che arrivava attutito dai banchi di mucillagine. Un algo-ritmo.
Danzavano e suonavano e cantavano immersi nella penombra traslucida di una metamorfosi ovidiana. Un fascio di luce invernale, sfiorandoli, non arrivava a violare la superficie liquida della piscina triangolare all’entrata dell’albergo, con quelle bordeggianti aiuole di crisantemi dai petali sottili, appuntiti, arricciati e neri che al Custode rammentavano i peli pubici di una falsa bionda.
«Se non fosse per la nebbia, potresti vedere la tua nave al di là della baia» disse Jay. «C’è sempre una luce verde che brilla di notte in fondo al pontile».