Mi fiondai giù per le scale mentre masticavo l’ultimo boccone del pranzo.
Arrivai in strada, Litzi stava saltando la corda, si fermò e mi guardò da sotto alla frangetta:
– Oh! Tacchinella! Hai preso le forbici? – disse.
La tacchinella ero io e non le avevo prese quelle cavolo di forbici, erano nel sottoscala buio e avevo una fifa boia.
A dodici anni e mezzo credi sempre che ci sia qualche mostro nascosto nell’oscurità.
Implorai Litzi sollevando le sopracciglia, lei mi prese per mano e insieme entrammo nel sottoscala.
Prendemmo le forbici trattenendo il respiro e corremmo in strada a gran velocità, ridendo dalla paura:
– Tacchinella! Vieni qui che ti faccio la frangia come la mia.
Litzi e io eravamo coetanee, lei abitava nel palazzo di fronte e trascorrevamo insieme i pomeriggi dopo la scuola.
Ci trovavamo tutti giorni in strada, insieme agli altri ragazzi dell’isolato.
Con le mani sporche di polvere e le calze rotte, giocavamo tra treccine e pantaloni corti e quando faceva buio raccontavamo storie di cavalieri, draghi e fate.
Le automobili erano poche e la strada era il nostro regno, conoscevamo i tombini per giocare ai quattro cantoni, tutte le crepe dei marciapiedi su cui ci sedevamo e ogni centimetro di asfalto dove avevamo lasciato la pelle dei nostri ginocchi.
L’unico intralcio alle nostre attività era la signora Guglielma, la padrona del negozio di vestiti, una vecchia zitella con il viso da strega.
Usciva dal negozio con gli occhi sgranati e urlava con voce catramosa:
– Se non la smettete di fare rumore, vi cavo gli occhi!
Noi fuggivamo lasciando la vecchia a sbraitare nel vuoto, i più coraggiosi tornavano di nascosto per depositare sterco di cavallo davanti all’entrata del negozio.
Litzi era appassionata di racconti fantastici e sapeva tutto delle fate.
– Ti va di aiutarmi fare una pozione magica? – mi propose.
– Una pozione? – chiesi.
– Sì, se fai bollire una spremuta di melograno incantato con ali di farfalla, in una notte di luna piena, diventi una fata immortale.
– Ci sto! – accettai con entusiasmo.
A dodici anni e mezzo credi sempre alla tua migliore amica anche se le spara grosse.
Un pomeriggio Litzi era stranamente seria.
– Mio padre si ubriaca tutti i giorni, di notte quando rientra picchia mia madre e a volte anche me. – disse.
La guardai senza trovare parole, lei sorrise quasi scusandosi di avermi detto quelle cose.
– Vai! Facciamo a chi fa più giravolte! – disse.
Cominciammo a ruotare a braccia spalancate a grande velocità e mentre giravamo a volte incrociavo i suoi occhi pieni di lacrime.
Facemmo talmente tante piroette che quasi vomitammo e mentre il mondo ancora girava ci abbracciammo per non cadere.
Il giorno dopo, dalla finestra, vidi Litzi uscire di corsa dal portone del suo palazzo, il padre la inseguiva e quando la raggiunse la afferrò sollevandole la gonna.
– No! Papà fermati! Lasciami stare! – gridò.
Fu gettata a terra e il padre si sfilò la cinghia dei pantaloni con cui le diede una sferzata sulla schiena.
La sentivo piangere e piangevo anch’io insieme a lei, guardavo e piangevo, non riuscivo a fare altro.
Due passanti tentarono di fermare l’uomo che con uno strattone si liberò e riuscì a darle un’altra sferzata.
Improvvisamente Litzi si alzò, fece un salto e colpì agli occhi il padre. Lui urlò e si accasciò a terra.
Litzi era in piedi. Immobile. Lo sguardo fisso e in mano un paio di forbici insanguinate.
La strada si riempì di gente. Arrivarono poliziotti, medici e ambulanze.
Arrivò anche la madre di Litzi. Un poliziotto le mostrò il corpo senza vita del marito coperto da un lenzuolo bianco: si misero in tre per calmarla.
Litzi in piedi, ferma, come di pietra. La madre le parlò tenendole la testa tra le mani e lentamente andarono via accompagnate da due agenti.
Quello fu l’ultimo momento in cui la vidi nelle sue sembianze umane.
I giorni successivi cercai Litzi, ma sembrava svanita nel nulla. Non c’era più traccia di lei e nemmeno di sua madre.
Il mese seguente la sparizione, mentre aprivo il portone al rientro da scuola, sentii chiamare:
– Oh! Tacchinella!
Mi voltai di scatto, era sicuramente Litzi che mi chiamava.
Sul lato opposto della strada non vidi la mia amica ma un tacchino, un vero tacchino.
Ero stupita mentre quell’animale si avvicinava con andatura ciondolante, mi guardava, aveva un’espressione furba.
– Litzi? Sei tu? – chiesi.
– La pozione magica. Sai, l’ho fatta veramente. Ti lascio la ricetta, ora devo tornare nel mio regno fatato, ti aspetto tacchinella. – disse.
Guardai il tacchino, cioè Litzi, diventare una nuvola di fumo verde in cielo.
Rimasi con il mento abbassato e lo sguardo verso l’alto.
– Accidenti! Litzi, la fata. – dissi sottovoce.
A dodici anni e mezzo puoi credere di avere un’amica che si chiama Litzi, che si trasforma in un tacchino magico e poi vola nel suo regno fatato.
Ma non puoi credere, non riesci a credere, non vuoi credere, di avere ucciso tuo padre.