Fu appena salì sul tram: la fastidiosa sensazione di avere dimenticato qualcosa di importante. Ma cosa? Ripassò mentalmente gli impegni che aveva avuto in programma per quel giorno, ma si era ricordato di fare tutto. Però… Prima di uscire aveva spento il pc? Sì. La luce? Anche. Il condizionatore? Ecco, quello no. Anzi, sì: stava per salire in ascensore ed era dovuto tornare indietro. No, non si trattava di quello. Be’, in fondo, se se l’era scordato, voleva dire che non era poi così importante.
Era stanco. Pensò alla serata che lo aspettava, una serata tranquilla, come tutte le altre. Appena in casa, avrebbe fatto una doccia mentre Elsa preparava la cena. Magari si sarebbe fatto anche una sega, sotto la doccia, pensando al culo della nuova socia. Un bel culo. Anche se quello di Elsa, vent’anni fa, era molto più bello. Alto, pieno, sodo al tatto. Ma quello di Elsa, ormai, lo conosceva troppo bene perché rientrasse nelle fantasie da sega.
Poi si sarebbe messo in pigiama. Un momento! Che giorno era, quello? Mercoledì. Ah, no, l’aperitivo e il teatro con quei vecchi rimbambiti dei Mortarotti erano fissati per il giorno dopo. Quindi, pigiama e poi Gazzetta dello Sport spalmato sulla poltrona, anche se Elsa si ostinava a dire che quello era un giornale per decerebrati.
Poi, dopo un po’, sua moglie lo avrebbe chiamato - “Alza il culo, è pronto” - e lui avrebbe messo da parte il giornale per decerebrati. Chissà cosa avrebbe cucinato Elsa; magari la pasta con verza e pancetta. Non era mai stata una gran cuoca perché odiava cucinare, ma quel piatto le riusciva bene. A tavola lei forse gli avrebbe chiesto com’era andata la giornata e lui le avrebbe raccontato del nuovo caso che gli avevano assegnato, dell’appello vinto o qualche pettegolezzo sul socio più vecchio, che a settantadue anni aveva messo incinta la colf filippina di trenta.
E chissà se Elsa, sotto il grembiule, avrebbe indossato uno di quei vestitini sexy che metteva da qualche tempo. O se aveva cambiato ancora taglio.
Perché si accorgeva solo ora che, da qualche mese a quella parte, sua moglie curava il suo aspetto ed era diventata più bella. Sembrava perfino ringiovanita. Per quanto dimostrasse già dieci o quindici anni meno di quelli che aveva. Invece lui era invecchiato malamente: borse sotto gli occhi, zampe di gallina, capelli grigi sempre più radi, pancia flaccida. Anche l’uccello non era più quello di una volta. Elsa, invece…
Forse aveva un altro. Un collega. O l’insegnante di spagnolo, quel Javier che le ripeteva quanto fosse brillante, uno dei migliori studenti che avesse mai avuto. L’aveva anche visto, quel tipo, e non gli piaceva come guardava sua moglie. O forse era Oscar Calabro, il marito di Matilde: con la scusa di un nuovo autore appena scoperto o di una mostra che lei non poteva assolutamente perdersi, stava sempre a ronzare attorno a Elsa, la toccava, le sussurrava all’orecchio. E non gli sfuggiva il modo in cui la stringeva ogni volta che ballavano insieme. Certo, la povera Matilde era proprio un cesso e non era neanche brillante; perché i soldi puoi anche sposarteli, ma poi scoparci è un’altra storia.
Elsa.
Perché era Oscar a stringere Elsa a quel modo mentre ballavano, e non lui? Perché avevano smesso di fare sesso? Perché non era più come una volta, quando ogni istante passato insieme sembrava una magia, una preghiera esaudita, un miracolo? Forse perché non c’è più nessun miracolo nell’abitudine. Ci scivoli dentro piano piano, senza neanche accorgertene, e poi sei fottuto, non ne esci più. Come dalle sabbie mobili.
Ma Elsa era speciale e lui non voleva farsela soffiare da nessuno.
Quindi, stasera, niente seghe sotto la doccia, né Gazzetta, né televisione, né collezione di francobolli o lavoro arretrato. Dopo cena avrebbe scopato sua moglie, lì sul tavolo della cucina, sul divano, a letto o sul pavimento. E pazienza se l’uccello non era più quello di una volta, perché bocca e mani le aveva ancora e perfettamente funzionanti. E poi le avrebbe detto che l’amava, sì, che dopo tutti questi anni insieme l’amava ancora e che non si era mai pentito di averla sposata e che, per quanto si fosse guardato intorno e avesse fantasticato su altre donne, non l’aveva mai tradita.
E poi l’avrebbe portata, dove? Di che posto erano quei cataloghi che aveva visto sparsi per casa? Sud America? Certo, Cile e Argentina. L’avrebbe portata laggiù e sarebbe stato come tornare indietro di vent’anni, riprendersi la vita, anziché vedersela scorrere davanti agli occhi come un treno in corsa.
Era arrivato. Scese dal tram, attraversò la strada fischiettando, aprì il portone e fece quasi di corsa i tre piani di scale che lo separavano da Elsa. Suonò il campanello col fiatone, ma nessuno rispose. Aprì con le sue chiavi. La casa era al buio. Nessun rumore. Accese la luce e la chiamò. Nessuna risposta.
Chiuse la porta, poi notò una busta adagiata nel portaoggetti che stava sul mobiletto dell’ingresso. Sulla busta c’era scritto il suo nome.
L’aprì e lesse:
Quando leggerai questa lettera, io me ne sarò andata. E non tornerò indietro. Perché se me ne sarò andata, significherà che per un anno intero avrò dato un’ultima possibilità al nostro matrimonio, aspettando che tu facessi o dicessi qualcosa per dimostrare che le cose avevano ancora un senso, che non era solo l’abitudine a tenerci insieme. Significherà che per dodici mesi, ogni mese, ogni settimana, ogni giorno, avrò cercato di scuoterti dal torpore, di risvegliarti dall’indifferenza. Ma sarà stato invano. E adesso è troppo tardi.
Quindi, dichiaro il decesso del nostro matrimonio, la fine della nostra vita insieme.
Buon anniversario.
Elsa
Cazzo, l’anniversario!