Aveva freddo. E provava una sorta di malessere impreciso, fatto di dolore fisico, di solitudine e di qualcosa che qualcuno, più esperto di lui in certe mal definibili ferite dell'anima, avrebbe forse chiamato tristezza.
Si, Archie conosceva bene il dolore fisico e la solitudine, gli bastava riandare con la memoria alla sua infanzia, in quella specie di cubo di due metri per due, con una porta metallica a separarlo dal mondo esterno, che aveva rappresentato per un anno tutto il suo mondo, sempre gli stessi odori, il rumore ogni volta uguale degli scarponi del custode che, con malagrazia, gli portava il suo pasto quotidiano, lo scroscio dell'acqua che lavava via gli escrementi e l'abbaiare, talora furioso, altre dolente, dei compagni di prigionia, nelle gabbie vicine.
Poi, un giorno, un viso gentile si era affacciato sul piccolo cortile che era il suo mondo, l'aveva accarezzato sotto le orecchie e l'aveva liberato.
Archie ricordava ancora l'emozione di quelle prime carezze e la scoperta graduale di un mondo di cui, fino a quel momento, non aveva nemmeno sospettato l'esistenza. Sentiva ancora preciso l'odore dell'uomo con la barba bianca che era diventato il suo compagno di vita, che divideva con lui l'entusiasmo delle corse sulla riva dell'oceano, che rideva di cuore delle sue fughe per inseguire i gabbiani, impegnati nella ricerca di cibo nelle ore di bassa marea.
In quei giorni Archie, che ignorava cosa fosse la vanità, aveva scoperto di essere bello, con il suo pelo folto scuro, le zampe agili e potenti e quegli occhi vivaci che sapevano comprendere ogni mutamento d'umore del suo compagno, comprese le ombre che a volte indugiavano tra le rughe dopo le visite di suo figlio e la sofferenza che, sempre più spesso, gli rallentava il passo nelle passeggiate sulla spiaggia.
E poi la luce negli occhi di chi l'aveva restituito alla vita si era spenta, e gli sembrava impossibile che tutto potesse continuare come prima, le corse sulla spiaggia si erano via via diradate, finché il figlio dell'uomo che era stato il suo compagno lo aveva portato in una casa di città, con un piccolo giardino recintato, in cui passava le sue giornate, ancora una volta senza una carezza, senza una gioia condivisa.
E aveva smesso di sentirsi bello, il suo pelo era diventato sempre più opaco, gli occhi meno brillanti, il passo più svogliato, fino a quando aveva sentito il suo muso deformarsi progressivamente per un gonfiore che gli rendeva ogni giorno più difficile anche mangiare.
Poi, lui che un tempo era il terrore dei gabbiani per le sue inesauribili corse, aveva sentito poco a poco le zampe di dietro cedere e si era accorto, con orrore, di non riuscire più nemmeno a controllare quando fare i suoi bisogni.
E' un sarcoma con metastasi vertebrali, aveva detto il veterinario, parole incomprensibili per Archie che aveva però notato, per la prima volta, negli occhi del giovane padrone, un accenno di dolore e di preoccupazione.
Non può più deambulare e non ha più il controllo degli sfinteri. Si può provare con una chemioterapia, ma in questi casi consiglio la soppressione.
Nel tragitto di ritorno, l'uomo con cui divideva la casa l'aveva accarezzato, poi per giorni l'aveva sentito trafficare in garage, finché ne era uscito con un buffo carretto con le ruote. Dopo che gli era stato fissato con una fascia sotto la pancia, Archie si era accorto di poter di nuovo camminare e, addirittura, malgrado la stanchezza, correre libero.
Il suo padrone l'aveva portato sulla spiaggia della sua vita di un tempo e l'aveva osservato, con un sorriso, correre sulla battigia.
Domani inizieremo la chemioterapia, gli aveva detto accarezzandolo sotto le orecchie, mio padre non ti avrebbe mai fatto sopprimere...
Archie lo guardò per un attimo negli occhi e prese a correre dove la sabbia conservava ancora traccia della marea appena scesa, cercando di inseguire un gabbiano.
Si sentiva di nuovo bellissimo.