We’re waiting for Young Turks! è scritto in calce a una gigantografia di Rod Stewart che campeggia sul portone del lounge bar Alla Fortezza Bastiani, il locale più trendy di Ariminum.
Edificato sulla spiaggia a pochi metri dalla riva del mare, riproduce l’interno rovesciato di uno yacht Azimut S17. Il soffitto però è troppo alto, le porte finestre sono troppo grandi e la moquette firmata da Aldo Cibic è di un rosso troppo acceso, come in un mattatoio dove il pavimento abbia preso il colore del sangue: da qui sembra ancora levarsi il grido disperato di bovini e ovini brutalmente sacrificati. In realtà sono solo campionamenti hip-hop in filodiffusione, generati da un’Intelligenza Artificiale sulla base di un algoritmo scritto dal Piccolo Ed. Specchi a parete ideati da Alice Liddell e Carlo Ratti, Direttore del MIT Senseable City Lab di Boston, vengono interrotti da mobili rivestiti di avorio, gli Snapshot di Faoma con i vani a rotazione negli armadi automatizzati per conservare vini, bevande e sigari. Se il rosso della moquette ricorda il liquido ematico, gli arredi eburnei fanno pensare a cataste d’ossa spolpate, carcasse di animali morti al cui interno si intravedono i resti di cibi non digeriti. Le mastodontiche superfici riflettenti amplificano l’effetto grandguignolesco dell’insieme. Sembra che l’architetto della Fortezza abbia cercato di esprimere le passioni dell’anima con il bianco e il rosso, dando corpo all’idea di un luogo dove ci si può rovinare, diventare pazzi, commettere crimini, postare selfie su Instagram.
Forse per questo il logo del locale è un elefante cremisi che si nasconde sotto un lenzuolo, lasciando scoperti occhi, proboscide e zampe, in un gesto ridicolo e inquietante – quello di un animale possente che diventa vulnerabile.
Il posto – oscura miniera di anime – brulica di pallide parvenze umane. Le tombe in cui dormono di giorno hanno spalancato i coperchi, lasciando uscire quelle ombre leggere. Giovani tatuatrici emule di Chiara Ferragni in mini abiti cuciti con ali di cavallette e allacciati da bottoni in ossa di grillo; progettisti di capi micro comandati con il cappuccio della tuta disindividuante Reebok calcato in testa; manager imbolsiti stretti in giacche Armani slim fit; segretarie attempate che sfoggiano burkini di Simona Chiaravalle: tutti si mischiano a carabinieri in pigiama di pelle trattati nei colori più chic (dai coloniali ai rosa pastello), punkabbestia in impeccabili vestiti grigi, donne glam, con abiti da sera stretch, bluse in pelo di wub dai colori fluo con reggiseni a vista in tinta, anfibi-sneaker tempestati di frammenti di meteorite, maglioncini di canapa marziana impreziositi dal ritratto anamorfico di Bertrand Russell.
Spiriti dell’aria, nell’aria, sul punto di dissolversi, camminano in fretta, per rifornirsi di vodka o di assenzio – come fantasmi ansiosi di tornare a infestare i castelli in cui, da vivi, hanno commesso terribili delitti. Fantasmi, ma fantasmi cool, direbbero gli ariminensi. Perché dal food porn ai tatuaggi, viviamo nella cultura del cool. Ma cos’è questo concetto che mescola Chiara Ferragni e Bertrand Russell, Aldo Cibic e il wub, Rod Stewart e il MIT?
«Nel significato di “alla moda, figo” la parola cool emerge nel 1927 nel vernacolo afro-ariminense. Prima» dice il Maestro ai discepoli rientrati con lui nel locale, dopo aver ordinato un giro di vodka al mirtillo, «to be cool voleva dire “rimanere calmo”. Da un atteggiamento di distacco emotivo degli schiavi neri. Che ritorna nel cool jazz di Chet Baker e nella cultura Beat. L’estetica del cool unisce quindi atteggiamenti quali aplomb, rilassatezza, levigatezza, understatement e self-control».
«Io credo» ipotizza il Capitano «che la chiave della coolness sia l’Eterno Ritorno di Nietzsche. Connota le cose per cui un tempo inorridivi e che prima o poi non solo tornano, ma appaiono addirittura belle, fascinose. Quelle che ti fanno intravedere i fili dell’ordito che intessono la realtà, soggetti a un’unica, immutabile vibrazione. Chi è incanutito navigando la sfera dell’Oceano…».
«La sfera fissa e mobile dell’Oceano» puntualizza il Pescivendolo.
«… o cercando di decifrare la trama di film come Cloud Atlas – se non, peggio ancora, della serie Netflix Dark – sa che quest’ordito è la Necessità, compagna inseparabile del Caso: sì, il Caso e la Necessità, che, intrecciandosi, lavorano insieme. Prendi gli occhiali con la montatura spessa. Nella mia gioventù chi li portava era oggetto di derisione: il mozzo più derelitto non li avrebbe voluti in sorte. Oggi si chiamano “strutturati” e li indossano le star».
«Fuck off the mònd, this is the cool essence» azzarda il Custode. «Cool is always out of every rule. Cool l’è un insort, a rebél, mica un patacca».
«Dunque» chiosa il Pescivendolo, elegantissimo nell’abito Synapse che interpreta le connessioni funzionali fra le cellule del cervello cambiando di continuo forma, luminosità e aspetto «l’unico vero modo per essere cool è essere uncool».