Uno show caleidoscopico con la velleità di inglobare tutto, dalla robotica alla cosmologia presocratica, sin dall'Episodio pilota, L'Incipit. E proprio il pilot, lo scoglio apparentemente più grande per una serie tv, diventa subito occasione di speculazione filosofica: ne viene fuori un campionario di citazioni e rimandi a ogni area dello scibile umano che lascia lo spettatore sgomento fin da principio.
Parliamo tuttavia di scoglio apparente perché l’ostacolo maggiore per chi voglia creare narrativa, qualsiasi sia il mezzo utilizzato, è la sua tenuta, ossia la capacità di tendersi fino allo spasimo senza spezzarsi mai. Certo inizio deve esserci, ma concentrarsi eccessivamente su questo finisce per far bruciare l’erculea energia di cui un Autore ha bisogno per portare a termine il proprio lavoro. E qui sta uno dei tanti limiti dell’opera, che appare troppo pensata: c’è in essa una spinta centripeta volta ad abbracciare il tutto (“Perché il Roc era fra loro ma, al tempo stesso, era ognuno di loro”, Episodio 2) tanto forte che che il nucleo finisce per involversi fino a sparire.
Certo ragguardevole è la capacità che l’Autore ha di collegare tra loro elementi dissimili, ma nella sostanza la serie non riesce a fare quella presa immediata, indispensabile, sugli organi di senso di chi pur desidera fruirne, a causa sia delle innumerevoli divagazioni sottotestuali, sia della dispersività che connota anche gli aspetti più fisici della narrazione: fotografia degli ambienti, descrizioni di oggetti, dialoghi. Non sprigiona, questo stupefacente (meglio, lisergico) affresco, quel calore vitale in cui ci si riconosce come esseri umani, l'empatia che assicura la ricezione emotiva dello spettatore e quindi la sua immedesimazione. Anzi, l'arroganza odiosa con cui l'Autore ci sbatte in faccia la sterminata (ma, sospettiamo, alquanto superficiale) cultura, produce un effetto respingente. Tanto più che, priva di eventi scatenanti, la trama è impalpabile: gli Episodi spesso si riducono alla descrizione di un fatto (per quanto surreale). L’assurdità della non-trama, la narrativa sghemba e slegata, la volgarità dei fatti rappresentati si sommano in un’opera totalmente mancata. E che si colloca tra le più sgradevoli e infelici di tutta la storia della televisione.
Dell’universo in cui Fellini s'immerge dovrebbe almeno operare una scrematura e offrire una porzione di quell'universo riconoscibile da un pubblico che, abituato ai Checco Zalone o ai Fabio Volo, ha scarsa dimestichezza con le Szymborska o i Shakespeare (sarebbe in difficoltà anche a sillabarne i nomi). Ariminum Circus prosegue invece per infinite gemmazioni a riprodurre il già detto all’ennesima potenza, senza peraltro chiarirlo, ma divenendo incomprensibile come le storie del JubJub per il Capitano. Non arriva, in una ricerca prometeica quanto quella del Cercatore d'Oro, dove forse vorrebbe, alla dimostrazione del teorema di Grothendieck – con cui nell'Episodio 16 si cimenta il Piccolo Ed per affermare la necessità di una molteplicità tendente all’infinito di punti di vista sul mondo, la cui ricchezza di senso è inesauribile, ballando contemporaneamente il tip tap – bensì finisce per offuscare il reale, se non a eliminarlo; ma anche un Omero, un Dante, un Joyce o il Wodehouse citato nell'Episodio 9, Il Custode dell'Asilo d'Infanzia Kandiskij, soccomberebbe in questo scontro impari - una lotta a mani nude con l’intero universo.
In questo quadro desolante, la promessa della serie, indicare "Who is Who", è del tutto disattesa: siamo di fronte a caricature di personaggi, parodie di emozioni, simulazioni di poesia. L'Autore sembra non rendersi conto di avere così condotto un attacco a quel realismo per cui l'Italia è famosa, nella tradizione che da Ladri di biciclette arriva a Gomorra. Un realismo che significa umanità, solidarietà, interesse per la vita, senso di responsabilità nel contribuire, con l’arte, alla comprensione dei nostri simili.
Ma i problemi principali risiedono in ciò che l'Autore, nel trailer interattivo di lancio, l'abominevole Test di ammissione, individua come pregio, ossia la non volontà (incapacità?) di attuare un’opzione strutturale netta, conditio sine qua non per un’appropriata ricezione da parte del pubblico. Perché, insistiamo, è nel dialogo con il fruitore che si gioca il destino di un'opera. Quella di Fellini è priva della scintilla divina che salda insieme Autore e spettatore. Assistendo alle pur funamboliche acrobazie di Ariminum Circus, quest'ultimo finisce per abbandonare il cimento, mentre l’Autore prosegue in solitudine a sfidare i suoi colossi.
Per questi motivi riteniamo che Ariminum Circus sia un fallimento, se non un insulto: dubitiamo che quanto visionato in anteprima sul canale streaming Typee possa ottenere una diffusione più vasta. Invitiamo dunque l'Autore a vergognarsi e a rinunciare alle altre Quattro Stagioni programmate, per coltivare campi in cui l'albero contorto del suo (pseudo) talento possa produrre frutti più commestibili.