Luce sulle lenzuola bianche, increspate. Si alza, raccoglie la vestaglia dalla sedia, la indossa e se la lega alla vita. Esce dalla camera, scalza. Cammina lungo il corridoio, dalle finestre entra una luce che taglia la penombra azzurro chiaro, scivola sul legno a terra.
C’è una foto, appesa al muro bianco. Cornice azzurra. Sotto quella un vaso crema in ceramica, due calle dentro. A terra si trovano un paio di infradito in pelle, delle zeppe illuminate dalle finestre.
Cala la mano sulla maniglia, apre la porta. Esce.
Luce. Quella luce.
Il mare. Quel mare.
I suoi occhi sono socchiusi, non riesce a tenerli aperti. Tira vento, si stringe nella vestaglia, le gambe si scoprono al primo passo oltre la soglia.
Una ciocca le riga il viso, i capelli sfilano via al vento. Con una mano cerca di ripararsi dal sole, vuole vedere il mare.
Lei, la spiaggia, il mare.
Respira forte, profumo di piante basse, spinose, aromatiche. Ne ha i polmoni pieni.
Pochi passi ancora e si appoggia alla colonna di legno chiaro della veranda. Solo il suono graffiante dei gabbiani, attorno, lo sciabordare del mare, di fronte a lei, la spiaggia distesa.
Poggia un piede sulla sabbia. Grana grossa, fredda. Poi l’altro, pensa che è fredda, occhi socchiusi e verso l’orizzonte, pensa che la sabbia è fredda e umida. Abbassa lo sguardo, inizia a raccogliere e poi lasciar cadere pizzichi granulosi di sabbia.
Pensa al tramonto della sera prima.
Avevano bevuto un po’, camminato per le vie in pietra del paese. Vie strette, cunicoli nascosti. Il silenzio assoluto, tra quelle vie. Non una parola, tra loro.
La strada era di poco in discesa, lei pensava alla fatica di camminarci con le zeppe, su quelle pietre, e a lui che la sosteneva con una mano. Ma era bello, in silenzio.
Un silenzio assurdo.
Poi lontana una musica. Un pianoforte.
Andiamo a vedere, dice lui.
Lei fa cenno di sì, sorriso velato e lo sguardo alle pietre a terra. Voltano in una via, le pietre diventano marmo ruvido beige chiaro, illuminate dal sole aprono una piazzetta. Il suono arriva da un palazzo, poco più avanti.
La porta in legno è socchiusa e lui la spinge, di poco. Ci guarda dentro.
La apre.
Al massimo ci dicono di andarcene.
Camminano mano nella mano lungo un sentiero di ghiaia, salgono pochi scalini. Dalla finestra bizantina una donna alza lo sguardo. Si ferma la musica.
Silenzio.
Poi la donna sorride e accenna ai due di farsi avanti, di aprire la porta ed entrare nell’atrio, nel grande salotto. Divani in velluto rossi, le sedie dorate, piante tropicali, un caminetto e quadri che tappezzano con geometria la stanza. Dall’alto soffitto un lampadario di cristallo. Sotto, un piano a coda, lei voltata che sorride e dice Prego, accomodatevi.
È bella, vestito lungo bianco, grossi orecchini ben pettinata.
Lei si volta, si siede sistemando l’abito.
Silenzio.
Un silenzio assurdo.
Riprende la musica.
Lui ha le lacrime agli occhi, lei gli occhi umidi e si trattiene, per non sbavare il trucco, quasi con aria di scuse.
Il pezzo finisce.
Lui dice qualcosa su Brahms, quell’interpretazione.
Lo conoscete?
Lui accenna un sorriso, un sì.
Conosce Brahms, non siete di queste parti.
Gli dice di dove sono, lei si avvicina, regale, solleva la mano e dice Piacere, Athena.
Loro si presentano.
Siete miei ospiti, stasera. Non suono solo Brahms.
Ospiti?
Lei sorride, con tenerezza sorride e fa cenno che Sì, siete miei ospiti.
Non possiamo, dice lui.
Lei non dice niente.
Ci hanno detto che qui, su quest’isola, si può godere del più bel tramonto del mondo.
Senza lasciare aria al tempo Athena dice
Il più bel tramonto del mondo è quello della finestra di casa propria.
È stato un bel tramonto, pensa.
Si volta, braccia conserte, i capelli le volano davanti, sul viso. Fa un passo sulla pedana di legno, piedi umidi di sabbia. I capelli sfilano al vento, lei entra, lascia la porta aperta.