Casa mia è una villetta a due piani in provincia. Sul davanti c’è un giardino di cinquanta metri quadrati in erba sintetica; dalla primavera all’equinozio d’autunno ci piazzo un ombrellone, un tavolino e un paio di sedie. Quando mio padre passa a trovarmi, preparo due drink belli carichi e ci sediamo lì all’ombra a sorseggiarli, aspettando che rientri mia moglie con i bambini.
Niente di pretenzioso. Se fossimo rimasti in città, allo stesso prezzo mi sarei dovuto accontentare di un trilocale in un palazzo di dieci piani.
Oggi ho tolto le rotelle alla bici di mia figlia. Ormai ha imparato. La guardo pedalare su e giù lungo il viale.
– Guarda papà!
Il fratello, di tre anni più grande, si sta impegnando per superare il suo record di palleggi.
Tra non molto sarà buio. Mia moglie è in cucina che prepara la cena. Ieri abbiamo avuto una piccola discussione, ma dopo mezz’ora ci stavamo ridendo su.
– Ciao papà! – urla la piccola, sorridendo coi capelli al vento.
– Non staccare le mani dal manubrio – le dico.
Faccio un lungo respiro, la brezza mi fa rabbrividire e mi strofino le braccia. Se potessi, catturerei la serenità di questo momento per portarmela appresso come un talismano segreto: la medicina da stillare per alleviare i momenti più bui.
Passi pesanti e tintinnio metallico di chiavi, acciaio contro acciaio.
– Basta disegnare – mi intima un uomo in divisa. – Forza, dovete uscire.
Uno dei miei compagni riesce ad allungare l’occhio prima che riesca a mettere via il foglio.
– Ma ch’rè? – mi fa. – Ritratto di famiglia? Ci manca il mulino.
– Aropp lo disegno – rispondo.
Ci mettiamo in riga controllati dal sorvegliante, in attesa che gli agenti finiscano la perquisizione della cella.