Dopo due notti trascorse accampato in quella che mi sembrava una cava abbandonata a nord di Algeciras, arrivò il momento di attraversare i pochi metri d'acqua che separano il continente europeo da quello africano. Le Colonne d'Ercole, punto di incontro e di scontro tra due culture, due religioni, due mondi così lontani e così vicini.
Il traghetto sarebbe partito poco dopo le 5 e la sveglia quella notte si attivò ad un orario così osceno che il buon gusto mi impedisce di svelare. Dopo aver impacchettato tenda e sacco a pelo e lasciato scaldare il motore scorbutico ma inesorabile della Renault 4L, orientai le ruote sulla strada del porto, all'imbarco Baleària. Volgendo di tanto in tanto uno sguardo carico di sonno alle carte, arrivai alla sconfinata infrastruttura portuale, una città nella città, un dedalo di strade e di ordinatissimi agglomerati di container illuminati da lampioni dalla luce ostinatamente arancio. Alle 3:15 c'era già una fila di auto in attesa di fronte alle navi ormeggiate. Motori spenti sia sulla terra ferma che sul mare: stabilii che ci sarebbe voluto ancora parecchio tempo prima di imbarcarci. Essendo impossibile poter dormire su un sedile così scomodo, rassegnato scesi dall'auto, gettai lo zaino sulle spalle e mi incamminai verso delle luci che sembravano suggerire la presenza di un bar.
Effettivamente si trattava di un qualcosa adibito alla funzione di mescita di bevande. I neon sfarfallanti colpirono con forza i miei occhi abituati al tenue bagliore al sodio dell'esterno e l'ambiente in cui entrai mi accolse con una malsana tinta verdognola. I soffitti altissimi e le pareti omogeneamente dipinte di bianco mi catapultarono in un vertiginoso limbo a cavallo tra questo mondo e una dimensione altra. Cercai di fissare lo sguardo su una presenza terrena prima di smarrirmi per sempre e fortunatamente individuai il bancone, dietro al quale una ragazza in canotta nera stava ascoltando senza troppa attenzione un uomo, certamente un marinaio, che parlava un idioma che non avrei mai saputo identificare. Lei annuiva per incalzare la narrazione, ma per lo più sorseggiava una lattina da mezzo litro di RedBull.
Mi avvicinai e, infilandomi in una pausa del racconto, mi rivolsi a lei per ordinare un caffè. L'alzata di sopracciglia mi suggerii che probabilmente non era la scelta più gettonata di quel locale così, per rincarare la dose, aggiunsi: "sin leche, por favor."
Lei ancora più perplessa tentò un "azucar?" al quale risposi con un veemente cenno di assenso.
Bevvi in fretta l'intruglio scottandomi la lingua. Feci per chiedere del bagno, ma ci ripensai perché il monologo era ripreso più serrato di prima. Raccolsi il pesantissimo zaino contenente i documenti e l'immancabile fotocamera e, valicando una porta, mi trovai nuovamente in un luogo asettico e alieno. In fondo, una porta caratterizzata dall'universale segno "WC". Pagai, salutai e uscii sapendo di avere lo sguardo della barista e del marinaio sulla schiena.
Tornato alla frizzante aria notturna del febbraio spagnolo, ne rubai una boccata avida.
"Bon voyage!"
Mi voltai di scatto e mi accorsi che l'augurio era partito da un vecchietto seduto nell'ombra. La scena sarebbe stata inquietante se non avessi intravisto un sorrisone e un pollice in sù, tuttavia valutai che una nota stonata ci fosse, accorgendomi che con la mano non impegnata a salutarmi pescava da un secchio qualcosa di viscido e lucido per portarselo alla bocca. Ricambiai col pollice il gesto di intesa prima di lasciarmi alle spalle quel posto abitato da un'umanità così curiosamente lontana da me. Camminando verso l'auto, osservai una gru impilare container provenienti da ogni angolo del mondo e seppi che su quella banchina stavo per lasciare anche io un piccolo carico di preoccupazioni, insicurezze e vecchie abitudini che non sarebbe stato imbarcato sul traghetto per Tangeri.
Il viaggio cominciava. Mi sentii perso e mi sentii bene.