Sono grato di aver affrontato i genitori di Simo come uno della folla, anche se l’abbraccio con me e Roby fu il più lungo e intenso. Non li avevo più visti né sentiti dal funerale, nonostante quel giorno gli avessi promesso di non dimenticarli. Non volevano perdere anche me. Dio mio, come avrei potuto convivere con il peso di vivificare il loro unico figlio?
Ero lì, con il mio brutto pacchetto tra le mani, il mio sorriso squallido, la mia voglia di bere. Inabissato dalla mancanza di parole, a bagnarmi inaridito delle loro lacrime.
Poi tornai a perdermi tra la gente.
Non era una veglia stile U.S.A. dove avrei potuto sbronzarmi in santa pace. Per Dio, era una cerimonia contrita, silente, molto italiana, alla quale prendeva parte anche il prete della parrocchia.
Come al solito io mi dividevo tra veglia e oblio. La maggior parte della gente invece, vorticava al centro del salotto, là dove il prete aveva preso parola.
Per tutto il tempo ero stato ammollo nei pensieri, ritornavo alla realtà a sprazzi.
Stropicciavo il pacchetto con il “regalo” di Simo, mi mordevo l’interno di una guancia, portavo il peso del corpo da una gamba all’altra, di continuo. E ancora quell’irrequietezza alla bocca dello stomaco, quel senso di gelo.
Seguii l’impulso nero e tremendo di dare uno sguardo alle mie spalle, al lungo corridoio che assorbiva tutta la vita della casa. Vi sostai. Tra le luci che digradavano scorsi un ombra.
Roby mi diede un colpo con il gomito e mi riportò al mondo.
«Cristo non fare lo stronzo.»
Il prete aveva finito e ora si rigirava tra le mani la sua bibbia tascabile.
Si era fatta avanti la Farinelli.
«Vorrei chiedere a tutti di condividere il vostro pensiero, per Simone… chi se la sente... »
Fece una pausa, sorrise, poi aprì il suo regalo: era un pupazzetto, una specie di gremlins.
«Simone me la… la perché è femmina… me la regalò l’anno scorso, a Natale… »
Dio quanto avrei voluto essere sbronzo! Non ce l’avrei mai fatta a fare lo stesso. Mentre parlava mi montò il panico. Non l’avevo mai provato prima di allora per cui nemmeno sapevo cosa mi stesse succedendo.
Le voci cadevano, veloci, vertiginose, a precipizio dentro di me. Fu la prima e l’ultima consapevolezza, non riuscivo a mettervi freno e più cercavo, più loro si rincorrevano disperate. Mi mozzavano, era come affogare nei respiri, si facevano sempre più rappresi, non riuscivo ad inghiottirli. Una smania violenta mi divorava da dentro e io pensavo che di lì a poco sarei imploso. Ma la paura più grande e reale era quella di perdere il senno. Volevo correre lontano, ma non potevo, ero come imprigionato in quella situazione. Una maledetta cella. La mia vista si offuscava e più mi ostinavo a lottare per risultare normale, più il cerchio nero mi strozzava.
Gettai di nuovo lo sguardo verso il corridoio, che aggiunse terrore al terrore. Tra le tante voci, si fece prepotentemente a galla quella di Simo, in un’angosciata richiesta d’aiuto.
Roby fu l’unico ad accorgersene e nel momento in cui vidi i suoi occhi, i miei si spensero. Mi accasciai e fu allora che successe: il tempo, lo giuro, il tempo si fermò di schianto. Le persone sparirono e io mi ritrovai immerso in una dimensione oscura assieme a Roby, che stava cercando con violenza di farmi riemergere.
Venni stretto da un abbraccio di gelo, che mi trascinò per i piedi e mi portò via con se. Nel corridoio, lontano.
Quello che vidi laggiù, fu indicibile.
L’orrore pendeva appeso a una corda, con il volto deformato da un ghigno. Una lingua di bava gli colava dalle labbra. Una striscia marrone scuro gli macchiava i pantaloni azzurri del pigiama, gocciolando lenta sul pavimento.
Iniziò a scuotersi come se fosse attraversato da scariche elettriche. Cercava di lottare per impedirsi di strozzare. E mentre lo faceva, rideva.
Credo fu a quel punto che impazzii.
Le luci tornarono a esplodere e il tempo riprese a scorrere.
Urlai, delirai, mentre ero accerchiato da corpi. Roby cercava di farmi ragionare, ma io ero un treno merci lanciato verso l’assurdo.
Mi tirò una manata violenta.
«Cazzo, Lungo, falla finita!»
Credo che quella mancanza di tatto, così rude e senza amore mi fece rinsavire.
Mi fu chiaro quella sera che dentro di me c’era qualcosa di irrisolto. Avevo inghiottito troppo dolore, e quello mi aveva riempito sino a traboccarmi. Non so bene cosa scatenò quella devastante reazione, credo che fu un sentimento di tenerezza che provai per quel pupazzetto... sembra assurdo lo so, ma aprì una crepa da cui tutto quel dolore sgorgò, potente.
Da allora, gli attacchi di panico furono all’ordine del giorno. Avevo il terrore degli spazi affollati, terrore del buio, terrore che Simo tornasse a farsi vedere. Che tornasse a prendermi.
Ero… credevo che per tornare a stare meglio avrei dovuto esorcizzare la sua stanza. Dargli pace. Era un pensiero che mi annichiliva e allo stesso tempo mi dava conforto. In quei mesi solitari passati in camera, quella e altre follie mi passavano per la testa.
Ero ancora un bambino. Non ero pronto.
Dio mio, lo si è mai?