“Lascia stare, Anna. Non toccare, posalo.”
“Ma mamma… l’ho appena trovato. Cos’è?”
“Ti ho detto di posarlo, non farmelo ripetere”.
Lentemente, quasi con aria di sfida, la bambina gettò lontano l’osso.
Erano su una spiaggia di sabbia bianca e sottile, il mare era calmo e il caldo insopportabile, come sempre.
Molti, innumerevoli anni prima, quando nessuna delle due era ancora nata, quel posto si chiamava Finlandia.
“Cos’ha di speciale quest’osso, mamma?”
“Fai come ti ho detto, d’accordo? Stasera ne parli con papà”; era un po’ alterata, la bambina non voleva mai ubbidire!
“Ecco – pensava la bimba - finiva sempre così, tutto rimandato a sera: papà parlerà, papà dirà…”.
Il parco naturale in cui si trovavano – ormai abbandonato da tempo - si estendeva su molti acri. Di quando in quando affioravano dei resti fossili e, ancor più raramente, un cartello piantato nella sabbia forniva qualche spiegazione incomprensibile.
La mamma e la bambina erano uscite dalla loro capanna, non molto lontano, per cercare un po’ di sollievo al calore
soffocante. Ma quel po’ di vento che soffiava era caldo anch'esso, rovente, come tutte le cose.
Erano nude; i vestiti avevano perso il loro scopo di protezione dal freddo, da tempo ormai, per non parlare della funzione estetica.
L’orizzonte, verso nord, era costantemente rosso, intervallato da fumi nerastri. Le fiamme si sviluppavano ancora fra quei radi cespugli che coraggiosamente resistevano. Il mare aveva invaso le terre più basse. Laggiù molto lontano e appena visibili sorgevano vaste isole, le terre più alte di quella che un tempo l’uomo chiamava Penisola Scandinava.
Il grande maschio sedeva fiero su quel rialzo di granito e annusava l’orizzonte. Tutto attorno i cespugli erano secchi e le acacie pungenti stavano morendo, incapaci di resistere al caldo che, anche in quei luoghi, era sconosciuto: troppo per bestie e uomini.
Non sapeva il grande leone che qualche anno prima quegli sciocchi nei loro begli uffici con l’aria condizionata, avevano inventato addirittura la ‘giornata del leone’. La loro coscienza era a posto, come quella di chi, da un giorno all’altro molti anni prima, aveva deciso che i matti non esistevano più. Un bel tratto di penna e il problema era stato risolto e, peggio ancora, dimenticato.
Si mosse verso nord, magro e stanco; dietro di lui una leonessa spossata dall’allattamento di due piccoli, grassottelli e allegri.
Dopo molti giorni di cammino, cibandosi di poche e scarne carcasse – proprio come le iene – scesero lungo la lunghissima scarpata; giù, sempre più giù, fino a che il terreno divenne piano. Qua e là erano erano sparse delle pozze d’acqua. Acqua finalmente. Scrollarono la testa come per liberarsi del sapore salato e rivoltante.
Proseguirono per l’infinita pianura. Di tanto in tanto spuntava fra il fango la pinna di una pesce morto, loro salvezza. C’era anche qualche teschio umano e qualche osso che sporgeva dal liquame. E qualche relitto di barca.
La marcia era senza fine. La leonessa morì quando giunsero dove il terreno riprendeva a salire. Continuarono ancora per giorni e giorni.
Ormai era rimasto solo lui e la sua criniera incrostata di terra.
Si distese e chiuse gli occhi.
Nella sera, un po’ più fresca, illuminata dai fuochi lontani, rossi ed eterni, la bimba faceva vedere al padre l’osso che aveva trovato quella mattina nella sabbia.
“Cos’è papà?”
“Un osso, cosa vuoi che sia, buttalo. Hai fame?”
“Sì papà, ho tanta fame e sete”.
Gettò lontano la tibia del leone, che non sentiva più il caldo da secoli. E neppure aveva mai saputo che un tempo era esistita la ‘giornata del leone’.