“Inside you the time moves
And she don’t fade
The ghost in you
She don’t fade”
The Psychedelic Furs - The ghost in you
I
Nell'oscurità, un uomo si ingobbisce per non inzuccarsi contro la cornice della porta che da sulla cucina. Ha gli stivali sporchi, i pantaloni sporchi, la camicia a quadri sporca. La stoffa dei suoi vestiti è logora e incrostata di fango. Le mani nere e sciupate strette su mazzi di una verdura violacea che sgocciola sul pavimento. In quella stanza, tutto in suo confronto sembra minuscolo: così per lui è il mondo.
Il torace si alza dopo ogni respiro. Il naso sibila. L’uomo prende un coltello e pulisce quella verdura che sembra una rapa. La taglia a metà e uno spirito rosa inizia a svolazzare per la stanza. L’uomo s’affretta ad acciuffarlo e a spingerlo dentro un barattolo. L’etichetta con la data di quel giorno e lo ammucchia in fondo a un armadio assieme ad altri curiosi oggetti. Poi, alza gli occhi all’orto al di là degli avvolgibili e lo vede: un bambino appeso al suo preziosissimo Aurora. L’albero delle mattine.
Quest’albero, una palma con le foglie simili, per forma e colori, alle piume della coda di un pavone, spunta fuori da uno steccato. Il bambino quando l’ha visto per la prima volta, ne è rimasto così stregato che si è ripromesso di esplorarlo con la giusta attenzione. Così adesso, facendo ben attenzione a dove mette i piedi, si arrampica allo steccato, mentre i simboli dipinti sopra iniziano lampeggiare. Il bambino è arrivato in cima e accarezza con la punta delle dita quelle foglie. Profumano di un odore che lui non ha mai sentito prima, simile ai fiori di ciliegio, ma con una punta più fresca e frizzantina. La corona variopinta sormonta un grosso tronco. Per dimensione, le drupe ricordano le noci di cocco, ma sono celesti con striature verdi. Il bambino si sporge ancora di più per prenderle, ma le manca. Dopo il primo tentativo, riprova, ma di nuovo non riesce. Così decide di fare forza sullo steccato per scavalcarlo, appoggia prima il sedere e poi un piede sulla cima, si sporge per afferrare un ramo e lo scavalca, rimanendo sospeso a metà, dondolando sopra il bordo dello steccato. Non guarda di sotto, si concentra sul frutto più vicino. Allunga la mano stirandosi più che può fino a ché non lo sfiora facendolo oscillare e poi, con un ultimo slancio, riesce ad afferrarlo, ma, proprio in quel momento, inciampa perdendo l’equilibrio. Il bambino lancia un grido e si aggrappa a un ramo appuntito che gli taglia il palmo della mano. Così appeso, guarda di sotto e si accorge di quanto è arrivato in alto e di quanto la vertigine gli dia alla testa: il ramo si spezza e il bambino precipita di sotto, cade dritto con i piedi che impattano al suolo. Il dolore è insopportabile. Il bambino strilla e si porta le mani alla caviglia, rannicchiato su se stesso, ad occhi chiusi, con il mondo che è diventato nero, pulsante e aguzzo. Sente come un odore di bruciato, un formicolio gli cresce dalla gamba destra e gli prende lo stomaco, poi il polso e il gomito. Non riesce a respirare e la sua richiesta d’aiuto sibila nel nulla.
Poi, una voce:
«Stai bene?»
«Certo Walter, sta benissimo! Guardalo!»
«Volevo solo essere gentile…»
Il bambino ha la bocca spalancata e, per un attimo, il dolore quasi si spegne: c’è un cane che sembra che gli sorrida con la lingua a penzoloni; di fianco a quello, un gatto rosso dall’aria incuriosita.
Il bambino fatica a capire la scena, ma poi trova le forze, o meglio, la credulità, per balbettare una risposta:
«Credo di essermi rotto qualcosa.»
Il cane gli annusa la caviglia.
«Ti fa molto male?»
Il bambino non fa in tempo a rispondere che il gatto rosso si intromette: «Perché gli fai delle domande senza senso? Non lo vedi da te? Piuttosto, che ci facevi lassù? Non lo sai che questa è proprietà privata?»
«Io… volevo… non volevo fare niente di male!»
Il gatto soffia, poi allunga una zampa sulla spalla del bambino.
«Ti è andata bene, potevi romperti l’osso del collo, non ci avevi pensato?» Quindi si rivolge al cane: «Walter, chiama il vecchio.»
«Scarabocchio? Vi prego… no» dice il bambino con un groppo in gola, ma subito il dolore torna a mordergli la caviglia.
Il gatto ribadisce al cane, con uno sguardo fermo, di fare come gli ha detto, solo che questo non fa in tempo a obbedirgli che dall’ingresso della colonica si alza un urlo:
«Che succede qui?!»
La terra trema, qualcuno o qualcosa si avvicina e il bambino cerca di strisciare via ma la luce del sole svanisce: un ombra incombe su di lui, e lo guarda.
«La prego, non mi faccia del male» lo implora il bambino.
«Eh?» brontola l’ombra «Lo sai che potevi spezzarti la schiena? Da solo?!»
«È quello che ho detto io, vecchio» s’intromette il gatto rosso.
L’ombra lo fulmina, il gatto non distoglie lo sguardo.
«Fammi vedere» dice l’ombra al bambino. «È messa male… dannazione a te ragazzino! Non ti hanno insegnato a stare lontano dalla roba degli altri?»
«Mi scusi… » dice il bambino.
«Andiamo, ti aggiusto io.»
In seguito, il bambino non saprà cosa pensare.
L’ombra ha una gentilezza tutta sua, irosa e scorbutica che, tuttavia, piace molto al bambino. Questo lo sorprende. L’ombra è un uomo conosciuto da tutti come Scarabocchio. È di poche parole, quando apre bocca parla esclusivamente il dialetto di queste parti, mai un cenno alla lingua comune e si fa capire molto meglio con le espressioni del viso e la sua rozza gestualità. Durante la camminata, il bambino ha modo di ammirare l’orto senza tuttavia avere il coraggio di esprimere le sue emozioni a parole. C’è così tanto splendore e mistero da travolgerlo. Per il bambino, tutto quanto trabocca di colori, di forme e odori nuovi. Un ruscello scorre azionando la ruota idraulica di un mulino posizionato sul fianco destro della colonica. Può sentire il lento incedere delle pale in legno, che affondano nell’acqua e poi riemergono. C’è un recinto con degli strani animali che al bambino ricordano vagamente delle mucche.
La colonica è molto grande, anche se un poco malridotta: risale a un periodo precedente alla seconda grande guerra. Come tutte le vecchie case della zona, ha un nome che sporge dalla facciata principale: Sabbiolino. Strano a dirsi, ma per il bambino i mattoni profumano come di pioggia estiva. Prima di entrare, Scarabocchio si pulisce gli stivali su di una piccola sporgenza in ferro conficcata nel muro.
C’è oscurità e un odore umido, triste, di cose abbandonate. Sembra che la casa sia abbandonata a se stessa come un oggetto rotto che ha perso il suo scopo. Curioso a dirsi, ma il bambino non si sente a disagio o almeno non quel tipo di disagio che dovrebbe provare una persona in una casa all’apparenza inospitale ed estranea come questa, tuttavia, prova pena e uno strano senso di colpa: è in imbarazzo, la casa è come struccata, del tutto impreparata al suo arrivo eppure il bambino sente, sotto quella spessa coltre di infelicità, una richiesta di aiuto. C’è un lumicino di speranza che ancora pulsa e che da a tutto quanto un’anima benevola, di certo non ostile. Il bambino crede che deve conoscerla e farsi conoscere per ottenere la sua fiducia e farla rifiorire. Per certi versi, il bambino sente di avere delle cose in comune con lei. La casa ha qualcosa da difendere, un tesoro meraviglioso che il bambino vuole vedere. C’è una presenza calda al di là di quella decadenza, quegli oggetti lasciati a se stessi, quegli strati di polvere, quei colori smorti, quella sporcizia...
Scarabocchio lo adagia su un divano, in una stanza incorniciata da mobili antichi e cupi: ci sono quadri e fotografie, per la maggior parte sono persone che non appartengono più a questo mondo o forse, solamente, non appartengono più a Scarabocchio. L’uomo brontola al bambino che la televisione è rotta e che l’unica cosa buona e funzionante in quella stanza è la musica. Ha un vecchio giradischi e se il bambino vuole può mettergli su qualcosa.
«Va bene»
L’uomo prende un vinile da dentro una vetrinetta e lo mette sul giradischi. Poco dopo parte Wednesday Night Prayer Meeting di Charles Mingus.
«Aspetta qui» Scarabocchio esce ciondolando dalla stanza, abbassando la testa per non inzuccarsi. Il bambino si ritrova da solo a lungo, in compagnia di una musica di una linfa viva e danzante che ama al primo incontro.
«Tieni!» Scarabocchio allunga un bicchiere ricolmo di un intruglio molliccio, dal color del moccolo, che ha lasciato un deposito verdastro sul fondo: ha un aspetto mostruoso e ancora più mostruoso è l’odore. Il bambino guarda dei residui che svolazzano dentro questo liquame e ha l’impulso di rifiutare l’offerta: si rifugia in un sorriso stretto. Scarabocchio tuttavia è perentorio: la mano sul bicchiere, il braccio steccato e il volto che non si schiarisce nemmeno quando il bambino beve il primo sorso.
È ripugnante! Denso come uno scaracchio, sa di qualcosa di marcio, di morto. E l’odore, è un odore che gli entra schiumoso in bocca e lì mette radici.
«Blaaah!!!» Il bambino chiude gli occhi e tira fuori la lingua. Il volto gli si è tutto raggrinzito.
«Avanti, non hai finito!» gli dice Scarabocchio. Poi si schiarisce la gola e, per un attimo, sembra che stia per scoppiare a ridere.
«Signor Scarabocchio, questa cosa è schifosa!»
«È fatta con la Defunctorum Tenebrosa, la pianta dei morti. Ti fa bene.»
Il bambino fa una smorfia sgualcita. Non dice a Scarabocchio quello che pensa, non si lamenta oltre e ingolla d’un fiato l’intruglio.
«Blaaah»
«Dovrebbe fare effetto nel giro di poco…»
Il bambino rigetta un piccolo rutto che viene a galla con il sapore della Defunctorum Tenebrosa.
Steso sul divano, con la caviglia che ancora gli fa male, al bambino, poco per volta vengono agli occhi tutte le stranezze nelle quali si è imbattuto dal momento in cui è caduto nell’orto di Scarabocchio. Certo, il bambino ha una fervida immaginazione e a volte riesce anche a vedere le sue fantasie. Tuttavia, sa riconoscere l’irreale e porvi uno “steccato” per separarlo dalla realtà. Ma, dopo aver superato quello steccato, il limite è diventato inconsistente. È così, allora, che nella sua testa iniziano le domande, e girano e girano senza dargli respiro. C’è una sola persona che può dare un nome all’ignoto, e si trova proprio lì davanti a lui
«Signor Scarabocchio?» chiede. «Dove sono finito?»