II
Scarabocchio non sa come rispondere. La domanda porta con sé troppi ricordi, dissotterra emozioni alle quali l’uomo ha fatto il funerale già da molto tempo. Volti, sorrisi, baci: è tutto andato. Come spiegare al bambino il primo seme di quell’orto, o la prima creatura, o ancora, il primo incontro con l’Essere? All’epoca era solo un ragazzo e questa è una storia personale che non si sente di condividere con un estraneo che ha ficcato il naso dove non doveva.
Però ci sono stati i battiti del cuore della casa, li ha sentiti, come quando “loro” vengono a fargli visita. Se prima li amava, ora ha imparato a disprezzarli. Allontana quella tenerezza perché gli riporta alla mente lei… e lei non può più rivederla. Ma allora chi è quel bambino che ha richiamato gli spiriti della casa? È di questo mondo, è come lui, lo sa bene! L’ha sentito quando gli ha toccato la caviglia. Poteva morire nella caduta e sarebbe finito tutto: il suo lavoro, la sua vita… le visite. Avrebbe causato uno squarcio irreversibile tra questo e l’altro mondo, perché, come gli ha detto l’Essere: lui è necessario. Al diavolo! Non era abbastanza alto quello steccato? Non lo era sempre stato? E poi, l’incantesimo di protezione non doveva impedire di vedere oltre? Se un bambino poteva superare a suo piacimento le barriere e varcare con semplicità una soglia così indispensabile all’equilibrio tra i due mondi, allora poteva farlo chiunque.
E adesso è lì, a fare domande?! Vuole sapere dove si trova e Scarabocchio come può spiegarglielo a parole, lui, che odia le parole. Ma quel bambino ha portato con sé una crepa, gliel’ha mostrata... forse si sta indebolendo.
Al diavolo! Dove si trova?
«A casa mia» dice, scrollando le spalle.
Il bambino si sente preso in giro, che Scarabocchio pensi che sia così stupido? Tuttavia, per lui è troppo importante trovare una risposta ai tanti interrogativi che gli frullano in testa.
«Sì, lo so che siamo a casa sua, ma dove? Non ho mai visto un orto così… quelle piante, quegli alberi. Ci sono pure dei cani e gatti che parlano!»
«No! Walter è un Rusk, mentre Serse è un Mesutah.»
Il bambino non ha mai sentito nominare queste razze, e poi… che risposta è? Walter, ha capito, è il cane. Quindi Serse deve essere quel gatto antipatico. E ora, il vecchio gli sta dicendo che sono un Rusk e un Mesutah? Cosa sono un Rusk e un Mesutah?
Questa è la domanda successiva.
«Come sta la caviglia?» gli chiede Scarabocchio, tagliando corto il discorso. Il bambino si accorge di aver dimenticato il dolore, perché è completamente sparito, così come il formicolio. Si sente di nuovo in forze, ma com’è possibile?
«Meglio?» dice, ma gli esce fuori come una domanda.
«Se non lo sai te… » ribatte Scarabocchio.
«Meglio… non sento più niente. Quell’intruglio è magico, vero?»
«Puoi alzarti in piedi da solo?»
Il bambino appoggia la caviglia a terra, fa forza e si alza in piedi, poi fa qualche passo.
«Sì, sto bene!»
«Allora te ne puoi andare con le tue gambe. Vieni, ti faccio vedere da dove puoi uscire.»
Il bambino si sente chiudere lo stomaco, quasi gli vengono le lacrime agli occhi.
«La prego… non mi mandi via.»
«Ho da fare!»
«Non le darò problemi!»
«Devo lavorare!»
«L’aiuto!»
Scarabocchio scoppia a ridere. Quella richiesta gli ha come rimesso in moto qualcosa dentro. Lui, così grande e grosso, solo da tanti anni, fuori tempo massimo, sente che è una delle cose più belle che gli sia capitata da anni.
«Va bene» dice dopo essersi dato un contegno. «Per un po’ la smetterai con tutte queste domande?»
Al bambino gli si illumina il viso: «glielo prometto… Cosa posso fare?»
Scarabocchio lancia uno sguardo severo al bambino che gli ha appena fatto un’altra domanda, quindi lo invita, con un cenno del capo, a seguirlo fuori di casa. Prima di uscire, gli dice:
«Walter e Serse sono dei regali di un mio vecchio amico. È uno spirito viaggia mondi… ti avverto, oggi conoscerai anche lui.»
Walter è accucciato sullo zerbino spelacchiato, aspetta che Scarabocchio e il bambino escano di casa. Sospira rauco e biascica a vuoto tirando fuori la lingua.
Serse se ne sta acciambellato su una poltrona che ha dei grossi squarci dai quali fuoriesce l’imbottitura. Si alza stiracchiandosi e sbadiglia, poi si fa le unghie sullo schienale.
A differenza di Walter, non è così sulle spine di sapere come si risolverà la questione. Lui sa che il vecchio farà bere al bambino la Defunctorum Tenebrosa e che quel ficcanaso guarirà nel giro di poco; poi lo sgriderà facendogli passare per sempre la voglia di ritornare da quelle parti, lo allontanerà dall’orto (magari con una pedata nel di dietro), e così tornerà la normalità di sempre.
Guarda Walter e prova pena per lui, lo vorrebbe rassicurare, dirgli una parola gentile ma, a conti fatti, a cosa servirebbe? Quello si spaventa per tutto!
Eccolo lì, sull’attenti al minimo rumore: si alza in piedi, annusa l’aria, gira su se stesso e poi ritorna ad accucciarsi su quel brutto tappetino.
“A prendere così la vita, sai che strazio!” si dice. Perché dunque sprecarsi per una causa persa? Lo guarda ancora e per un breve istante prova quell’emozione da lui tanto odiata: empatia. Farsi trascinare nella sofferenza degli altri lo infastidisce, lo rende vulnerabile, perciò solo a quello si sente di porre rimedio.
«Perché non te ne stai un po’ calmo! Mi dai sui nervi!» gli dice.
Il Rusk cerca di darsi un contegno ma le domande non gli danno pace: come fa Serse a non capire la gravità della situazione? La sua unicità?
Chi è quel bambino che è riuscito a superare le barriere e perché la casa lo ha chiamato?
Il suo non è l’odore di una persona cattiva, ma non è nemmeno l’odore di uno spirito. Non è come loro, è più come il vecchio e i simili del vecchio non possono vedere.
Certo sa che Scarabocchio lo curerà, ma dopo cosa succederà? Non si può ignorare una cosa come questa. Una domanda in particolare lo turba: e se l’incantesimo si stesse indebolendo?
Il vecchio non ha di certo un intuito e un fiuto come i suoi, e potrebbe gettare tutto al vento lasciando che le cose tornino come prima senza cercare di porvi rimedio. O almeno, senza cercare di comprendere.
Quando vede il vecchio, il Rusk inizia a scodinzolare, ad agitarsi e a fare dei guaiti. Il bambino è con lui. Walter fa correre lo sguardo dall’uno all’altro e vede sui loro volti una luce che li accomuna: è calda e benevola ma allo stesso tempo ha una sfumatura cupa. Ed è così che un’intuizione lo risveglia, rendendolo consapevole di una verità che, adesso, solo lui sa.
«Abbiamo trovato un nuovo aiutante» dice Scarabocchio ai due animali. Il Mesutah sembra colto alla sprovvista: «stai scherzando?»
Il vecchio non risponde, cammina verso il capanno degli attrezzi.
Il bambino prova a seguirlo, ma Serse gli si para di fronte.
«Che gli hai detto?» gli chiede.
«Gli ho solo chiesto se potevo aiutarlo»
«Perché? Che te ne viene in tasca?»
«Niente… volevo ripagare il favore»
Serse è diffidente per natura, ma qualcosa nel bambino lo incupisce. Non gli piace, lo mette a disagio.
«Bada a non fare danni, non immagini neanche quanto siano preziose queste piante!»
«Su Serse, dagli tregua. Se il vecchio ha valutato così avrà avuto i suoi buoni motivi. Non pensi?» interviene Walter.
Il Mesutah soffia, poi corre via.
Walter fa una smorfia.
«Non farci troppo caso a Serse, non è cattivo. Solo che non gli piace nessuno a parte se stesso. Sai, non è sempre stato così, un tempo… » il Rusk viene interrotto da Scarabocchio.
«Vi muovete?! Qui si lavora non si parla!»
Scarabocchio mette in mano al bambino una vanga e gli dice di fare come lui. Il bambino affonda la lama nella terra alzando piccole zolle. Il sole gli si spacca sulla schiena, il sudore gli bagna la fronte, la terra gli entra nelle scarpe. Si ferma, si controlla le mani. Riparte, e così via per un’ora buona. Solo quando la stanchezza lo ha sfinito, dice: «signor Scarabocchio, prendo un attimo fiato»
Il vecchio ridacchia e fa cenno al bambino di andarsi a riposare.
«Aspettami là che tra poco arrivo anch’io»
Il bambino si siede sotto il tronco di un grosso albero da frutto, con i rami azzurri che scendono a cascata come quelli dei salici. I frutti sono bianchi, di diverse forme, e odorano di pozzanghere. La testa dell’albero sembra un cielo in miniatura. Da lì, il bambino guarda Scarabocchio lavorare la terra. Si ritrova a vagare con lo sguardo per l’orto, seguendo il ruscello che vi scorre in mezzo.
Il vecchio, accompagnato dal Rusk e dal Mesutah, lo raggiunge.
Si piega con un lamento, poi si siede appoggiandosi al tronco.
Dal momento che Scarabocchio gli ha impedito di fargli domande, il bambino aspetta che sia lui a parlare. Il silenzio risalta i respiri e la stanchezza di entrambi.
«Come ti chiami?» gli chiede Scarabocchio.
«Elvis» risponde il bambino.
Il vecchio gira il collo e lo guarda.
«Come il re» poi affretta un'altra domanda. «Tu sai, vero, chi è Elvis Presley?»
«Certo! Era l’idolo di mio papà! A casa ho tutti i suoi dischi.»
«Bravo.»
Cala di nuovo il silenzio, una folata di vento fa frusciare le foglie dell’albero e l’aria si inebria dell’odore dei suoi frutti.
Scarabocchio chiude gli occhi, il venticello gli rinfresca il sudore della fronte agevolando pensieri felici. Si sorprende a notare che la compagnia di Elvis lo rasserena: il suo sorriso, i suoi modi gentili, la sua educazione e il suo rispetto, gli stanno togliendo dalla testa l’immagine che si è creato.
«Hai già lavorato la terra, vero?»
«Sì, mio papà d’estate mi portava con lui. Mi piaceva molto.»
«È faticoso, no?»
«Per me non c’è niente di meglio.»
«Cambierai idea quando sarai più grande.»
«Perché, a lei non piace?»
«Per niente.»
Forse Scarabocchio mente, è un rapporto molto complicato per lui, un amore-odio, come crede lo sia per tutti quelli che lavoravano la terra. Però una cosa la sa bene: non è capace di fare altro nella vita.
«È mezzogiorno, io me ne vado a mangiare. Tu non devi tornare a casa?»
Elvis si asciuga il sudore, lasciandosi una scia fangosa sulla fronte, guarda il cielo e il sole allo zenit. Sua mamma rientrerà a casa di lì a poco e lui è incredibilmente lercio, sudato, puzzolente, inzaccherato di terra e con le mani spaccate da alcune vescichette. Deve fare presto. Di sicuro se volesse parlarle con sincerità della mattinata, lei darebbe di matto. Scarabocchio non ha di certo una bella reputazione e tutti, dai più grandi ai più piccoli, se ne tengono alla larga. Non è difficile immaginarne le ragioni.
«Sì… mia mamma mi aspetta» dice. «A oggi pomeriggio allora, mi libererò presto!»
Elvis corre di fianco a quello steccato che sembra non finire mai, toccando con la punta delle dita il legno e con i piedi che calpestano l’erbaccia alta. Riprende la bicicletta che ha lasciato dalle parti dell’Aurora.
«Yuhuuuu!» grida.
Ma ecco che, dispersi nel vento che si alza e nel silenzio della campagna, si sentono uno scricchiolio e un sogghigno. Elvis si volta: al di là della strada c’è un boschetto che si insinua e cresce verso l’oltre, arrampicandosi fino a una piccola collinetta e lì muore, proprio ai piedi del cimitero delle auto vecchie.
“Di notte questo posto deve fare paura” rabbrividisce Elvis.
La casa di Scarabocchio è isolata dal mondo e lo steccato non collabora certo a infondere un clima ospitale. Tutt’altro.
Elvis indugia verso gli alberi che pendono sulla strada, tuttavia, non si accorge degli occhi che lo stanno osservando, rintananti nell’ombra. Il loro padrone si passa la lingua lungo la punta di ogni dente. La bocca ghigna, lo stomaco urla per la fame.
Se fosse solo per questo, uscirebbe fuori con un balzo, lo divorerebbe, dando fine ai suoi lamenti, ma l’energia della casa lo ferirebbe, forse lo ucciderebbe. Si è spinto oltre i confini del suo branco e si è perso, questo per seguire l’odore.
Quella preda ha una fiamma simile alla “sua”, ma non è la stessa. Sente il terrore crescere e la paura della morte, lì rintanato nell’ombra poco lontano da quell’energia pulsante che lo respinge. È troppo pericoloso uscire fuori da solo dove altri predatori lo potrebbero vedere, così decide di tornare alla sua buca e attendere il calare dell’oscurità.