Ottavio Pernich, con un ampio movimento del braccio, spinge le carte e i vecchi elastici giù dal tavolo.
L’ordine lo tormenta, riesce a liberarsi da quella morsa ansiogena soltanto inscenando un disordine momentaneo.
Le giornate di straordinario – pensa - sono le peggiori. E' quasi sera, non c'è freddo e ancora non c'è caldo, tra poco devo tornare a casa.
Le pratiche terminate sono sul piccolo tavolino di legno scuro.
Alza lo sguardo al soffitto e nota ancora una volta la macchia di umidità così simile a una donna svestita. Socchiude gli occhi e sente un fremito all’inguine.
Sta succedendo - pensa - sta succedendo...
Non accade spesso, ma quando la carne gli comunica i propri bisogni lui non sa opporsi né negarsi un solitario piacere.
Scosta la sedia, scompare nello sgabuzzino e ne torna con la ramazza in mano.
Solleva la punta della scopa fino alla macchia, a quella forma femminile, e le tasta il pube.
Si spinge sulle dita dei piedi, gratta più forte con la sommità del bastone contro l'intonaco.
Non è ancora abbastanza.
Inizia a colpirla con piccoli tòc, ritmici e insistenti.
Con l'altra mano si tocca il sesso.
I colpi si fanno più insistenti, una sottile polvere di calce si sbriciola dal soffitto e per Pernich è come una richiesta lasciva.
Anche se il polso inizia a dolergli, intensifica la violenza delle battute, fino a che dal piano superiore non giungono grida di uomo.
Alle grida seguono percosse di sedia sul pavimento, e poi degli insulti.
Pernich si blocca, perde l'equilibrio e cade seguito per terra dalla sedia, dalla scopa e dalla pila scomposta di pratiche.
Il frastuono lo atterrisce, gli fa scemare l'erezione e nascere il sospetto di essere malato.
Ha il tempo di sollevarsi che per le scale risuonano passi rabbiosi.
Poi qualcuno bussa alla porta.
Con molta insistenza, con molta cattiveria, pensa Pernich.
Si slaccia il nodo della cravatta e teme l'insorgere di un infarto, che però non giunge.
Rimane immobile, ansimando.
Da fuori la voce urla che protesterà col capo ufficio, col portiere e con l'amministratore: lo sanno tutti che si tratta di lui, Pernich, non è la prima volta che i colpi creano scompiglio nel palazzo.
La voce anticipa che farà di tutto per nuocere al suo lavoro.
I passi si allontanano, poi più nulla.
Pernich si rilassa un po', si risiede.
L'ha fatta grossa.
Di certo le urla dell'inquilino le hanno udite tutti, il portiere, tutte le donne del palazzo.
Lo derideranno.
Solleva lo sguardo e la macchia tentatrice è lì, più oscena ancora.
L'intonaco sbriciolandosi ha aperto una breccia, una finestrella triangolare dietro la quale rosseggia la superficie dei mattoni.
Ha un fremito per quella donna così selvaggiamente aperta.
Si prende la testa tra le mani, trattiene un gemito, dardeggia nell'aria con la lingua giallastra sognando di assaggiare quel sesso pensile.
Bruciante di desiderio si stringe contro il muro come un orso infreddolito, si pressa negli angoli, si massaggia i gomiti velati dalla camicia.
Perché adesso questo desiderio di donna, perché così forte e insistente?
Fissa il soffitto e una stizza rabbiosa lo assale.
La macchia ha perso le sembianze di un corpo femminile ed è tornata a essere soltanto una macchia grigia.
Allora sfoglia con furia le riviste nel secchiello verde bottiglia, ma non trova altro che numeri parole e visi di maschio.
Forse è meglio tornare a casa.
Sua moglie lo attende, e tra le mura domestiche quella foia lo abbandonerà di certo.
Poi però pensa agli sguardi accusatori e disgustati dei condomini per le scale, e questo lo trattiene.
La passione lo riprende, e a provocarla è il pensiero della macchina da scrivere della Albertini, nell'altra stanza.
I tasti macchina da scrivere della Albertini: piatti, lucidi, e pregni del sapore delle dita di lei.
Ruggisce quasi, pensandoci.
Si sente perso, senza controllo.
Corre nella stanza accanto, accende la luce e si avvicina allo strumento.
Solleva il telo di protezione e gli si prostra davanti.
Ficca le unghie nel legno della scrivania, poggia il mento sul lungo tasto spaziatore.
Ha l'immagine della Albertini dentro al cervello: le spalle rotonde e strette nel vestito, la curva del suo seno.
Con la punta della lingua sfiora la F, poi la Q e la H, la J, scende a lambire la B, la N, lecca il punto interrogativo e la virgola, poi i due punti.
Gli sembra di sentire il sapore pastoso dei polpastrelli di lei, il calore della pelle.
Il cuore sbraita e quelle urla represse sono come un sangue pazzo che gli scorre nel corpo.
Non pensa neanche per un attimo di essere folle, si sente soltanto euforico e vivo.
Si ferisce un po' la lingua risalendo fino al rullo rotante e nero, insalivandolo disturbato appena dall'idea di un sesso maschile.
Sente la pressione dei tasti sulle guance, taglienti contro la pelle.
Spinge tanto il viso tra i pulsanti che senza accorgersene fa scivolare la macchina da scrivere fino al bordo del tavolo, e poi giù per terra.
Segue un rumore pesantissimo di ferraglia.
Dal piano di sotto giunge un urlo di protesta, poi colpi contro il soffitto.
Ma Ottavio Pernich non ci bada neanche.
Si accascia sul pavimento, ansima, le labbra sul legno consumato della pedana della scrivania.
Qui la Albertini poggia i piedi, a volte forse scalcia via le scarpe e pressa la pianta nuda, paffuta e sudata.
Si esalta a quel pensiero, e morde il tratto di legno cilindrico come un cavallo eccitato stringe la mordacchia tra i denti.
Le sue spalle si contraggono, i fianchi gli si stringono come un anello intorno alle ossa.
Senza rendersene conto si è spinto fin troppo dentro al ventre della scrivania.
Lui e il suo grasso.
E’ rimasto incastrato.
Qualunque idea erotica svanisce dalla sua mente e si sente prigioniero.
*
Si divincola, si scuote tutto, ma ottiene soltanto di far traballare il legno pesante.
Da sotto salgono nuove proteste.
Pernich avverte il sudore inzuppargli il colletto della camicia.
Sente passi veloci per le scale, diversi campanelli suonare.
Alza lo sguardo all'orologio sul muro: le diciannove e cinquantotto minuti.
Mia moglie avrà già apparecchiato per cena.
La paura pian piano scema dal suo corpo.
Ma.
L'attenzione gli si blocca su un filo bianco, di media lunghezza.
Per terra.
Davanti al viso.
Pensa alla Albertini, e allora fantastica che quello deve essere un pelo caduto dalle sue mutandine, durante le lunghe ore di lavoro alla scrivania.
Un pelo di fica.
Avverte lungo la schiena un vibrare di vertebre, si sente un baccello separato in due dal pollice esperto di una massaia.
Protende le labbra per succhiare la reliquia, troppo lontana.
Inspira, tira fuori la lingua, ma non riesce a raggiungerla.
Poi un pensiero improvviso e sferzante: non è la scrivania a stringergli i fianchi incatenandolo, ma i muscoli sodi delle gambe della Albertini.
Un rigurgito di saliva gli colma la bocca, si sente animato da un vigore inaspettato e con colpi vigorosi delle reni prende a scuotere la pesante impalcatura di legno, sollevandosi sulle ginocchia e lasciandosi ricadere giù.
Il frastuono della scrivania montata e posseduta invade la piccola stanza e infuoca i suoi sensi, si trasforma nel gemito di una donna che gode e sancisce definitivamente la sua condanna.
Persa ogni pazienza, gli inquilini riuniti sul pianerottolo provano a forzare la serratura della porta, ma non riuscendovi la scardinano a spallate.
Crak.
Gli uomini hanno un moto di pena e disgusto, mentre le donne coprono gli occhi ai bambini perché non vedano il ragioniere Ottavio Pernich, cinquantanove anni, seminudo e avvinto alla regolare geometria di legno di una scrivania, gridarle esasperato, fremendo, “ti amo, Albertini, ti amo..."