Le parole le arrivavano dritte nello stomaco, chiuse come un pugno rovente, con le ditta ben strette nel morso di un dolore atroce. Ed è li che rimasero per qualche giorno, obbligandola a convivere con loro, senza che avesse il coraggio di guardarle in faccia. Parole semplici, composte di suoni morbidi e leggeri, di vocali tondi ed ingannevoli. Parole che nella loro essenza erano invece colpi di frusta ben piazzati che non lasciavano spazio a nulla e che non le permettevano di pensare e di respirare. Mentre le pronunciava, con gli occhi socchiusi e nudo sul letto, l’uomo cercava di evitarle lo sguardo, forse per la vergogna di doversi spiegare, forse perchè non gli importava più nulla di stare in quella camera che prima gli apparteneva, con una donna che non desiderava più.
Lei si giro, con una scusa qualunque, evitando di guardarlo in faccia e continuando a far finta che le parole che le cadevano addosso non la riguardassero. Non pensava più alle carezze di pochi minuti prima, ne alla bocca che una volta le scorreva su tutto il corpo facendola irrigidire e poi sciogliere, e ancora e ancora fino a non ricordare chi era, ne alle mani che la cercavano impazzite nel tentativo di domarla. La sua essenza era concertata su una sol cosa: fuggire. Scappare da li, da quella realtà che rifiutava, che non coincideva con i suoi desideri, che la urtava come una pioggia di aghi gelati. Aveva fretta. Fretta di restare da sola per poter soffrire in pace, senza testimoni o sotterfugi. Di soffrire fino in fondo, come solo ei lo sapeva fare, di annullarsi, di provare oddio e disprezzo per gli altri e per se stessa per poi alla fine rinascere e amarsi di nuovo.
Ci sono voluti giorni perché il pugno si aprisse, liberandole una ad una le parole, ingannate da false risate e attimi di costruita felicità. Sono andate via lentamente, strisciando prima verso i polmoni e soffermandosi alcuni istanti sulla gola, stingendo fino all’ultimo le pulsazioni del cuore. Quel giorno si rese conto che lei e il suo corpo erano un tutt’uno, una massa amorfa di carne e sussulti tenuta insieme dalla sola volontà di affrontare il mondo.
L’uomo continuava a stringerla delicatamente, come se, nel profondo, sapesse che c’erano ancora tante cose in quella donna ostinata e fragile che si potevano spezzare.
- Ci siamo incontrati nei tempi sbagliati.
- Si, rispose lei. I tempo è tutto. Intanto pensava “Il tempo è vita, e la sua vita è sempre li ad attenderla, da qualche parte fuori dalla sua portata. Una ricerca stancante che non finiva mai”. Sentiva un bisogno infinito di piangere per la perdita di quel corpo che non poteva più accarezzare e possedere. Un corpo di un uomo che non amava e che giaceva vicino a lei, senza potere a darle più alcun piacere.
- Ho bevuto troppo, forse un’altra sera …
Lei lo sapeva, non ci sarebbe stata nessun altra sera, nessun altro corpo da assaggiare, nessun’altra scusa da inventarsi. Odiava quella camera accogliente e calda, le lenzuola troppo poco stropicciate, i vestiti lanciati per terra in un euforia ormai morta per sempre. Lui si alzo. Con un movimento deciso, virile, si staccò da lei e da quella pigrizia imposta per accontentarla. I suoi occhi cercavano qualcosa di neutro al quale aggrapparsi e viaggiarono per un po’ finchè trovarono gli angoli di un libro buttato sul comodino.
-Shakespeare…
Lei annui. Sorrise nel tentativo di sembrare tranquilla, indifferente. Con un movimento pigro e studiato si mise la veste e lo accompagno verso l’uscita. Una veste lunga, nera, che non metteva mai e che aveva ancora l’odore di una vita che non le apparteneva più. Una vita finta ed estranea come diventavano tutte le cose che toccava. L’unica cosa vera di quella serata rimarrà quel lungo abbraccio davanti alla porta, un abbraccio disperato e sincero di due corpi ce si lasciavano per sempre. Dietro le spalle dell’uomo la porta si chiuse con un colpo secco e lei rimase a lungo accovacciata a terra, sola con tute le parole ancora da gestire.