Per le caviglie sottili traballavo
per scarpe lisce, inadeguate
a luoghi che non fossero salotti.
Nelle discese mi sbilanciavo
spostando nell’asse dei tacchi
quattro centinaia di etti
di incertezze aggraziate.
Il tuo braccio mi sosteneva
mentre mi precedevi
scendendo un milione di scale,
e nell’incipit che recitavo
precisavo “almeno”, un affannato “almeno,”
mentre fiero scongiuravi
cadute e inciampi.
Curiosa replica adesso
questo tentennare di caviglie fragili
“colpa di scarpe lisce, inadeguate”
pietoso alibi per tempi nuovi
di malfermi futuri annunciati,
da braccia complici,
in età gradatamente scomode,
salvaguardati.