Scrivo tutti i giorni da quando ho diciannove anni, per sopravvivere alla chiamata del selvaggio. L’ho già visto accadere a tanti prima di me. Tanti con più talento di me.
Scrivo ovunque. Scrivo chiunque.
Non ho un dono. Non l’ho deciso. Non l’ho cercato.
Sono infetto.
È la stessa identica storia solo con più tabacco.
Quando sono diventato adulto, mi sono appassionato alla mia diversità, l’ho coltivata. Per quanto mi riguarda, ho sempre messo la mia diversità al di sopra delle mie esigenze. Questo perché per me l’immagine è tutto. Per immagine, intendo la penombra di me che do agli altri. Per tenerli lontani.
Non mi sono mai definito uno scrittore.
Mi sono sempre definito un licantropo.
Perché è questo che sono.
E lo amo. E lo odio.
La mia diversità ha iniziato a manifestarsi con violenza nell’adolescenza. Mi tormentavo per questo. Non sapevo dove sfociarla.
Credo che per molti sia così. C’è un mostro che vuole impadronirsi della nostra coscienza a cui, ogni tanto, lasciamo tenere le briglie.
Questo non ci rende speciali.
In gioventù ci si accomuna, si segue un unico manuale.
Anche io ho seguito quel manuale, perché era nuovo, aveva bei disegni.
Così si omologa il mostro.
Ma c’era qualcos’altro. Una fame che non ho mai saziato in quegli anni.
Fino a che non ho ucciso. E mi è piaciuto.
Era un ‘eventualità a cui non avevo mai pensato.
Stare in mezzo agli altri senza prenderne parte attiva, o stare in disparte, assorbito alle pareti. Vedersi con qualcuno, perdere la verginità. Controvoglia in una gita scolastica in Cornovaglia.
Era sempre stato lì. Poi, la luna piena. Quando l’ho vista.
Era del primo anno, io del quarto. Mi ha sconvolto, e, ogni volta che la incontravo, mi sentivo come lacerato. Era troppo per me, ho cominciato a perdere la salute.
Per un intero anno ho fatto ricerche su di lei e, senza parlarle, ho scoperto come si chiamava, dove abitava, perfino il suo cibo preferito. Il resto me lo sono inventato. Certo, al di là della sua bellezza, c’era un’anima artificiale che io stesso avevo distillato. Non c’era niente di vero, era solo una croce. Un simbolo. Come tutte le fedi, non aveva bisogna d’altro.
Ero ossessionato da lei, eppure non avevo il coraggio di avvicinarmi a lei.
Fu quando la vidi con un altro ragazzo che persi completamente il senno.
Quella fame si stava portando via pezzi di me, poco a poco, tutte le volte che la vedevo.
Ero come il protagonista di quel libro: rimpicciolivo ogni giorno. Ero destinato alla dissoluzione.
Eccomi, smagrito sino alle ossa.
E lei. E lui. Un bacio.
Un crampo allo stomaco.
In paradiso tutto va bene. Va tutto alla grande.
Quando tornai a casa, mi fiondai in camera da letto, soffocai le urla nel cuscino.
La viva carne pulsava sotto la pelle che si sbriciolava. Le lacrime acide mi scioglievano il viso.
Il dolore era straziante. Nauseante. Stavo morendo, quello era il mio ultimo giorno su questa terra. E dovevo fare tutto quanto in silenzio.
Ma non morivo, soffrivo e non morivo. Ed era, se è possibile, ancora peggio.
Mi fu chiaro in quel momento. In qualche modo, per far si che il dolore se ne andasse, dovevo liberarmi di lei.
Dovevo ucciderla.
Ma per uccidere un’idea, ci vuole un ideale.
Era sempre stato in me, ma prima di allora era apparso solo a canzoni. Volevo fare in modo che qualcos’altro, qualcosa di terribile e sanguinolento accadesse.
Presi la penna.
Uccisi, sbranai, in preda alla passione più cieca. Mi sentii vivo come mai prima di allora.
Rinvenni il giorno dopo, nudo e senza più legami con la bestia.
Il corpo di lei completamente dilaniato dai morsi.
Certo, la rividi, più volte, dopo quella notte, ma non era più la mia lei.
Era solo un’estranea che indossava il suo volto.
In quegli anni, la mia disperazione era diventata anche narcisismo. Non parlavo con nessuno della bestia.
La ricercavo la notte, chiuso nella mia camera da letto. Lontano dal mondo.
Ma ciò che ignoravo, era che avevo bisogno di altri corpi.
Finita la scuola, frequentai i bar. Annegando.
Da allora, ho cominciato a scrivere ogni giorno, se così si può chiamare. Dal canto mio, li ho sempre definiti omicidi. Non cerco scuse, non l’ho mai fatto con altri scopi. Volevo solo privare del volto le persone. Ammucchiare corpi e seppellirmeli dentro.
Questo è il mio discorso sulla licantropia.