Ljudmila ricevette nel suo piccolo appartamento di Kiev, inaspettata, la visita di Eleanor, che era giunta in città in missione diplomatica. Le due amiche si abbracciarono a lungo. Scosse, piangenti. Si scambiarono in silenzio un interminabile, radioso, sorriso. Una gioia intensa, ma contenuta. Come si deve ad istanti da assimilare nel profondo, perché, si sa già, irripetibili.
In quei pochi minuti, tenendosi per mano con tenerezza, ripercorsero, quasi senza parole, i loro brevi incontri di un tempo. Lei, Ljudmila, appariva goffa, ma fiera. Si sentiva fuori posto. L’immensa sala dei ricevimenti, quella delle conferenze….Luoghi solenni, che non aveva mai nemmeno immaginato. Eleanor, la padrona di casa, moglie del Presidente degli Stati Uniti, paladina dei diritti umani; donna potente, aristocratica, le si avvicinò con curiosità e rispetto. Sorridevano, ora, pensando alle prime parole di presentazione che si scambiarono nella circostanza. “E voi chi siete?” aveva domandato Eleanor. “Sono un cecchino”. “Una donna cecchino?” “Nel nostro Paese le donne combattono in guerra insieme agli uomini.” “E quanti uomini ha ucciso?” “Nessun uomo, solo nazisti. Trecentonove.”
Lasciai gli studi all’Università per andare alla guerra come volontaria. Al fronte mi mandarono quando, quasi per caso, si accorsero che la mia mira mi faceva preferire lì, con un fucile in mano, piuttosto che nelle retrovie, come infermiera nell’ospedale da campo, dove inizialmente ero stata assegnata. Eravamo in tante a sparare. E del resto, come affermava sempre il Comandante del nostro reparto, “la mano di una donna è più sensibile di quanto non sia quella di un uomo. Quando una donna sta sparando, l’indice preme il grilletto più agevolmente e volutamente””.
Nel caldo, nel freddo, nella pioggia, nella bufera di neve dovevo restare immobile nella mia postazione. Ero infiltrata, in posizione avanzata, isolata rispetto alle truppe amiche. Negli anfratti o tra i palazzi delle città distrutti dall’assedio, in quella solitudine, dovevo restare invisibile; anche i cecchini nemici erano in agguato. Attenta e precisa. Lucida. Dovevo colpire selettivamente. Attendere, riservare il colpo agli ufficiali, che non è poi facile sostituire come si fa invece per un qualsiasi soldato. Allontanare ogni emozione. “Ogni nemico che resta vivo può uccidere vecchi, bambini, giovani della tua famiglia, della tua gente” mi urlavano continuamente al Comando. E mi ripetevano: “nel colpire, la sola emozione che devi provare è la stessa che prova il cacciatore che ha ucciso una bestia da preda.”
Dopo un po' sopporti ogni fastidio. Anche quello delle lacrime che scendono per il freddo, e per via dei tuoi occhi che devi tenere sempre aperti. Non puoi permetterti di asciugarle, non puoi distogliere le mani dal grilletto. Ma a volte non era per quello che scendevano. Lo avevo conosciuto in guerra Aleksej. Era bello. Occhi azzurri, limpidi. Li ricordo ancora quegli occhi mentre mulinavano verso l’alto, verso la fissità, dopo lo scoppio agghiacciante del colpo di mortaio; cullato come un bimbo da una macchia rossa che si dilatava nella neve, sotto di lui. Lo ricordo spesso, e penso che l’amore che conosci in battaglia è diverso. Non è banale, si aggrappa davvero alla vita. Ha il senso e la profondità che in un altro luogo non avrebbero. Attraversa il terrore che ti si muove dentro, ci si mescola, lo attenua. Ed è lì che il tuo uomo ti afferra e ti porta lontano dalla visione di quel massacro a cui anche tu dai respiro. Ma forse è a noi donne che succede: abbiamo più corpo, siamo più vaste. Conteniamo più cose. Ogni racconto, ogni sensazione ha più spazio da invadere, ci confonde e ci conduce altrove.
Altri colpi lacerarono anche la mia carne, offesero i miei occhi. “Ed è così che ci siamo conosciute, ricordi Eleanor? Ljudmila Pavličenko, la famosa cecchina russa, Lady Death, come mi chiamavano, l’eroina di una guerra in cui, ormai, non poteva più sparare. Inviata a Washington, a chiedere più truppe da destinare all’Europa, ad aiutare la sua patria martoriata.” “Si Ljudmila”, le rispose Eleanor, “e che forza che avevi nel chiederlo. Ancora ti vedo su quel palco. Minuta, con i capelli corti, le gonne lunghe e quel cappotto militare che ti faceva grassa. Guardavi fissa il pubblico, lo inchiodavi: “Signori, ho 25 anni e ormai ho ucciso 309 nemici nazisti. Non pensate, signori, che vi nascondiate da troppo tempo alle mie spalle?””
Le loro labbra si erano increspate in una smorfia triste e lo sguardo si rivolse in basso, per lunghi minuti. Ricordi densi, intimità che reclamano silenzi. Si scoprirono a piangere di nuovo. “Siamo proprio due femminucce” si dissero allora all’unisono. Poi alzarono gli occhi e li unirono. Ed iniziarono di nuovo a sorridere. Ora di gusto.