«Quindi, mh… Fino a ieri quanti ne ha uccisi?»
Alza gli occhi dai fogli e mi guarda.
«Tre.»
La sua faccia è inespressiva. Annuisce una sola volta e torna sul quaderno che ha davanti. La penna inizia a scorrere sulla carta.
«Ma non l’ho mai fatto a posta» aggiungo.
Mi fissa di nuovo, questa volta le sopracciglia dietro gli occhiali si sollevano di poco.
«Mai… fatto… a posta» sussurra, mentre le stesse parole riempiono la prima riga della pagina.
«Forse una volta sì.»
Si ferma, appoggia la penna e si toglie gli occhiali.
Lo ammetto, vista dall’esterno potrei sembrare calma, ma mi sto rompendo le palle a stare su questa sedia scomoda davanti a un tale deficiente. Sarà pure un dottore, ma è un deficiente.
Quando smetto di pensare noto che ha i gomiti pelosi sulla scrivania e le mani intrecciate sotto il mento.
«Va bene» dice calmo. «Mi racconti com’è successo.»
«Quale dei tre?»
«Tutti e tre, se possibile.»
Respiro a fondo e mi sistemo meglio sulla sedia. Non che il culo mi faccia male davvero, ma vorrei piantargli la penna nel naso e andarmene.
«Ehm… la prima volta stavo tornando in soggiorno. Le porte di casa mia sono di legno, sono pesanti, poi d’inverno con l’umidità si gonfiano e… insomma, bisogna spingerle forte per farle chiudere. E poi comunque quando sono gonfie non restano spifferi, ecco. Cioè, si incastrano proprio bene.» Mi accorgo che sto divagando, ma come altro lo capirebbe, questo idiota? «Non ho visto che il gatto era dietro di me, quindi ho dato una spinta alla porta proprio mentre stava entrando e gli ho chiuso la testa e… sì, insomma, credo che gli si sia spezzato il collo. Non ha nemmeno fatto in tempo a dire miao.»
Sono esausta, per tutto questo parlare. Lui aggrotta la fronte e annuisce, ma non sembra molto convinto.
«E gli altri due?»
«Il secondo l’ho spaventato mentre dormiva sul davanzale della finestra aperta, tanto per scherzare, però è volato giù. Lui ha fatto in tempo a dire miao. Abito all’ultimo piano, quindi un miao molto lungo.»
D’istinto tiro dentro le labbra. Il dottore in tutta sorpresa fa lo stesso, ma a differenza mia per contenere un sorriso.
Dovrei sentirmi sollevata o dovrei preoccuparmi? Perché ha voglia di ridere? Il mio sguardo serio contagia il suo.
«Bene. E l’ultimo? È lui il gatto che crede di aver ammazzato di proposito?»
Faccio sì con la testa.
«Me ne parli.»
«Stavo cenando e lui continuava a salire sul tavolo, gli dicevo di scendere e gli davo una pacca sul sedere, ma lui saliva di nuovo, quindi alla fine l’ho preso per la coda e l’ho lanciato contro il muro.»
Di colpo abbassa gli occhi sul quaderno. Si gratta la testa, io inizio a pensare che quel gatto mi era sempre stato sul cazzo.
Il dottore si copre la bocca con la mano, sempre fissando i fogli, poi la chiude in un pugno che batte piano sul mento.
«Beh… comunque tre più trentuno fa trentaquattro, quindi…»
«Trentuno?» ripeto allibita.
La solleva anche lui e annuisce, tirandosi indietro finché le spalle incontrano lo schienale della sedia. Incrocia le braccia sul petto.
«Lei ha ucciso un’intera colonia di gatti…» dice guardandomi di nuovo.
Imbarazzata, mi gratto il collo dalla clavicola fino alla gola. «Io… ecco, sì, è stato un raptus. Non credevo fossero così tanti.»
È perplesso, piega leggermente di lato la testa. «Mh, beh… no» afferma, tornando con le braccia sulla scrivania. «Un raptus è prendere un gatto per la coda e lanciarlo contro il muro perché sale sul tavolo mentre uno sta mangiando. Lei ha svuotato decine e decine di petardi per ricavare trecento grammi di polvere esplosiva e ci ha costruito una bomba carta» spiega con calma. «Una bomba perfetta, tra l’altro, visti i risultati.»
Mi studio le scarpe. Forse ho esagerato.
«Quanti giorni le ci sono voluti per quell’ordigno?»
Non me lo ricordo, ma non voglio ammetterlo: mi prenderebbe per pazza.
«Una settimana» invento.
«Una settimana?» ripete alzando la voce. «E le sembra un raptus?»
Evito il suo sguardo. Avrei dovuto dire tre ore.
«Mi sa dire almeno la ragione del suo gesto?»
All’improvviso torno vigile. Sì, so dirglielo.
«Di notte bisticciavano sempre, era impossibile dormire. Ma soprattutto di mattina la gente del quartiere si fermava a portargli il cibo, e la strada non ha parcheggi, quindi bloccavano il traffico per scaricare i sacchi dei croccantini facendo un cenno con la mano agli autisti in coda, a mo’ di scuse…» alzo la mano imitando quelle decerebrate, «e arrivavo tardi a lavoro.»
Il dottore riempie i polmoni d’aria, io mi ricompongo sulla sedia. Si rimette gli occhiali.
«Non credo che basti a giustificare l’uccisione di trentuno gatti.»
«Quindi gli altri tre non contano?»
Le sue sopracciglia folte si piegano. «Cambierebbe qualcosa?»
«Ora che ci penso sono trentacinque.»
«Un altro?» chiede sbarrando gli occhi.
«Volevo sapere se era vero che hanno sette vite.»
Si toglie di nuovo gli occhiali e si massaggia le palpebre. Sembra esausto anche lui.
Io fisso la scrivania e sospiro. «Se i suoi figli glielo chiedono, risponda che è già tanto se ne hanno una» dico scoppiando a ridere.