La casa è piccola, una sola stanza con veranda esterna. Una costruzione isolata, vicina al mare. È talmente inserita nel paesaggio che sembra fatta di sabbia. La donna l’ha sognata per tanto tempo: un dentro che fosse anche un fuori, un luogo di non appartenenza.
Da bambina, quando i suoi erano ancora sposati, vivevano al secondo piano di un condominio, in un appartamento che a lei sembrava grandissimo. C’era un balcone, che dava sul giardino dei vicini. Un inverno lei e sua mamma avevano trovato un pulcino di tortora, con un’ala ferita. L’avevano curata, nutrita, tenuta al caldo. La tortora zampettava per casa, la seguiva nelle stanze. Poi venne la primavera. Portarono la tortora sul balcone, e quella volò. Un volo incerto - incerta se andare o restare prese tempo, scese nel giardino dei vicini. Quando il gatto nero si avvicinò, la tortora rimase ad aspettarlo - priva di consapevolezza.
Non ci sono foto alle pareti o sui mobili. È convinta che le foto siano inutili, congelano istanti senza anima.
Ci sono solo cose vere, nella casa, quelle che restano immutate nel tempo: letto, tavolo, sedie, pentole. Alle pareti sono appese tavole di legno di varie dimensioni su cui nel tempo ha pennellato tutte le declinazioni di azzurro: acquamarina, polvere, ceruleo, pervinca, fiordaliso, lavanda, cobalto, lapislazzuli, blu di Prussia, blu egiziano, indaco, oltremare. Così sembra che il mare, da fuori, si rifletta sui muri della stanza.
La casa è sporca, ma priva di cattivi odori perché la donna tiene aperte la porta e le due finestre quasi tutto l’anno: c’è sempre un’aria salmastra, che può essere fresca o appiccicosa. Quando è frizzante la donna è allegra, sente il soffio del maestrale e di solito dipinge; ma le piace anche l’aria pesante dello scirocco, la sua invadente malinconia.
Entrano uccelli volando. Alcuni si posano, altri frullano qualche secondo sopra il tavolo e poi escono dalla finestra. La corrente d’aria sposta batuffoli di peli di cane, sembrano piccoli topi che si rincorrano sul pavimento. Topi veri non ce ne sono, i gatti non lo permettono. I cani entrano ed escono a loro piacimento. D’inverno salgono sul letto e la riscaldano.
La donna si siede su una delle due poltroncine sistemate sotto la veranda. La luce è magnifica. Tutto intorno a lei è bellezza, di quella che ti scava dentro e ti obbliga a costruire immagini, o ricordi sinceri per indulgere al pianto. Si sente invischiata in una ragnatela di solitudine comoda, troppo confortevole.
Deve nutrirsi di dolore per riuscire a separarsi da tutto questo.
Un’estate era in vacanza con i genitori in Calabria - un paesino di cui non ricorda il nome, assolato e polveroso. Il centro era una piazza, rossa di terra e gialla di sole. La piazza era deserta; poco più lontano, trasparenti come ombre, c’erano una donna nera, cioè vestita di scuro, e un bambino obeso, che da lontano sembrava biondo. Camminavano accostati, per andare chissà dove, fuori dal paese.
Entrò con i genitori in un bar, nell’unico bar. I suoi chiesero se potevano avere tre panini. Il proprietario rispose che aveva dei panini già preparati, con la salsiccia cotta.
Fuori, su una panchina al centro della piazza, aprirono i pacchetti: il pane era secco, la salsiccia fredda allegava sotto i denti. Un piccolo branco di cani selvatici, rinsecchiti dalla calura e dalla fame, razzolava nell’immondizia poco lontano. L’odore della salsiccia li attrasse: si avvicinarono guardinghi, muovendosi in diagonale e sollevando il labbro superiore a mostrare la dentatura aguzza. C’era anche un cucciolo, un bastardino nero. Il pelo lungo e arricciato lo faceva somigliare a una pallina, non sembrava un coyote come gli altri. Anche lui ringhiava, ma si avvicinò di più. Aveva zampe corte e piedi grossi. Suo padre disse che sarebbe diventato un cane di taglia grande, per via di quei piedi. La bambina gli tirò un pezzo di pane, e lui si accucciò a sgranocchiarlo.
Quando il cucciolo si avvicinò a lei, al suo braccio teso che finiva con una salsiccia rancida, suo padre scattò una foto. Nell’inquadratura si vedeva il cucciolo allungarsi il più possibile senza spostarsi sulle zampe, con l’illusione che la testa rimanesse indietro insieme al resto del corpo. Invece la testa era vicina alla mano della bambina, la bocca aperta nell’istante in cui afferrava la salsiccia, gli occhi chiusi dal piacere. A guardare la foto, avresti potuto pensare a un cane felice, a un’estate felice, a una famiglia felice.
Più tardi, quando erano saliti in auto, il cucciolo li aveva inseguiti. Correva dietro la macchina con quelle zampette corte che si incrociavano, sembrava una palla da bowling lanciata su una pista sbagliata. Si capiva che ci credeva, di riuscire a raggiungerli. Lei urlava, pregava suo padre di fermarsi, di farlo salire. Non aveva mai pregato più nessuno così, in tutta la vita. Il cucciolo era diventato un puntino nero, poi più niente.
La donna prova ancora la stessa sofferenza di quel giorno, lo stesso rabbioso dolore nella gola, allo sterno: si piega su se stessa per raccoglierlo.
Non sente i passi che si avvicinano, la sabbia attutisce i rumori.
È un uomo giovane, ha un sorriso affascinante. Dice Bello, qui, proprio una bella casetta.
Il cane bianco, misto maremmano, si tiene a distanza e ringhia.
Buono, Cane - dice la donna -, va bene così. A cuccia.
E ci vivi sola, vecchia?
C’è stato un tempo in cui erano in due. Abitavano in città e facevano la spesa al supermercato. La sera guardavano la televisione insieme, e accadeva che pronunciassero frasi che riflettevano i sogni di uno. O dell’altra. Se la prendevano, a volte, col destino. In estate andavano in montagna, più spesso al mare: nelle foto si vedevano i loro visi, sovrapposti a scale cromatiche di verdi o di blu, esprimere una sorta di felicità senza menzogna.
Vuoi da bere? Io sì, un bicchiere di vino mi ci vuole.
Volta le spalle all’uomo e beve il suo vino guardando il mare. Quando sente lo scatto del coltello a serramanico, è felice che lui non le legga in viso la paura.
La linea dell’orizzonte sparisce, finalmente mare e cielo si fondono.