Le migliori ciliegie della mia vita. Duroni della varietà Giallo Tramonto. Grosse succose e crocche, colte direttamente sull’albero, in un terreno che il nonno aveva lasciato in eredità a mia madre, l’anno prima. Ne mangiai a decine, una domenica di maggio del 1981, fino a non poterne più, e tante da giustificare quello che sarebbe successo dopo. Almeno in apparenza.
E’ l’ultimo ricordo felice, prima del buio senza appello nel quale il destino stava per precipitarmi.
Avevo 11 anni, i capelli biondi lunghi e spaghetti, con la riga in mezzo, come usava negli Anni ’70; due fari come occhi, e gambe leggere, che danzavano. Ero allegra, la maggior parte del tempo, ma avevo già le mie malinconie, rivolte in special modo alla compagna di classe alla quale mi ero affezionata, perché aveva il padre in carcere, e la mamma faceva i salti mortali per campare. La volevo proteggere, la Giovanna, dalle sue paure, dalla miseria in cui viveva, e non immaginavo che di lì a poco nessuno avrebbe potuto difendere me, dalla fine del mondo.
Accadde dopo alcune settimane. Una notte mi svegliai contorcendomi per i dolori alla pancia; mi rivoltavo nel letto come fossi tarantolata, gridavo, venni soccorsa dai miei genitori, e dopo aver vomitato l’anima, sembrò che tutto fosse finito.
Ma nei giorni seguenti successe ancora, e ancora.
Nel frattempo sostenevo gli esami di 5° elementare, con una fatica atroce, ma un’ostinazione che ancora oggi mi perseguita: amavo la scuola, non potevo sfigurare, e fallire proprio alla fine. Non me lo sarei perdonata.
Dimagrivo a vista d’occhio. E soffrivo come se stessi partorendo.
Mi portarono a destra e a manca, per farmi visitare. Il medico di famiglia si arrese quasi subito, e consigliò un internista. Questi mi ispezionò e mi curò per una indigestione di ciliegie.
Prendevo un farmaco che metteva sonnolenza, e mentre studiavo mi appisolavo, ma poco dopo le mie gambe senza pace, agitate dai medicinali che avevo in corpo, mi costringevano a tornare vigile.
Si andò avanti in questo modo per un tempo che mi parve infinito. Fui di nuovo visitata, mi infilarono un grasso dito adulto nel sedere, per concludere che ero sul punto di ‘diventare signorina’. Che cazzo significa questa espressione, poi, riferita a una che ha la sua prima mestruazione, non l’ho mai capito.
Fui promossa con ottimo. Partimmo per le vacanze. Mio padre lavorava a Bologna, in quel periodo; io, mia sorella e mia mamma eravamo parcheggiate in campeggio, sulla Riviera Adriatica, e lui ci raggiungeva per il fine settimana.
Ho dimenticato quasi tutto, di quei giorni, forse perché dormivo e basta. Ma è un coltello puntato nel petto, ancora oggi, quello che mi disse mio papà, venuto a prenderci di corsa per portarci a casa, mentre urlavo dal male. Sono solo capricci, disse. Ti ho perdonato, papà, davvero.
Tirammo sù due stracci di vestiti, e lasciammo la roulotte a Marina di Ravenna, sigillata alla meno peggio.
Chissà cosa provava, mia sorella, non mi ricordo nemmeno di lei. Era così piccola, aveva solo 5 anni.
A Milano non cambiò nulla, poi le cose peggiorarono. Rotolavo per terra, sputavo bile, svenivo. E una mattina mi arrampicai sulla finestra, per gettarmi di sotto: non potevo patire oltre. Di lì a poco un’ambulanza, volando, mi trasportò in ospedale. Mi pigiarono e mi violarono nuovamente, ma questa volta il dito era femminile, magro e lungo, e si scoprì l’arcano: c’era un cancro nel mio intestino, altro che Duroni Giallo Tramonto!
Mio padre si presentò con un mazzo di fiori, penso che si sentisse in colpa.
Avevo scelto un prendisole di Fiorucci, che adoravo, a strisce, con i miei colori preferiti: il turchese, il verde, e il fucsia. Si indossava facilmente dalla testa, e non stringeva sulla pancia.
Me lo tolsero in fretta, al suo posto mi diedero una vestaglietta di cotone bianco, chiusa sulla schiena con dei lacci, ma ero nuda, e mi vergognavo moltissimo. Mi fecero mille esami, frugarono ovunque, e l’indomani mattina fui operata. Me lo levarono di dosso, quel feto senza senso che aveva scelto di abitare il ventre di una bambina non ancora diventata donna.
Ho imparato cosa sia, la paura. E ho imparato a sopportarla. A conviverci. Perché da allora non mi ha più lasciato. E sembro a chiunque tanto più coraggiosa quanto più mi attanaglia, togliendomi il respiro.
Le impedisco di sopraffarmi, ma è una lotta quotidiana, un lavoro che consuma.
Come se mi fossi sporta oltre i confini conosciuti e leciti, e ne fossi rimasta per sempre impressionata.
Tutta la vita, ci sto mettendo, per riemergere, e tirare un sospiro di sollievo.