Eh no! Non se lo meritava un cielo così anche stamattina! E chi era lui? Quel fotografo dei poveri che aveva visto su Netflix? Come si chiamava: Salvato? Ah, Salgado, ecco! Con un nome così doveva essere straniero. Aveva bisogno di un bel cielo limpido, frizzante, mica quella cosa grigia e indistinta. Sbuffò. Infilò il cappotto, prese la sporta della spesa e, in tasca, il solito sacchetto bianco della Coop che serviva per preservare le chiappe dall’umido della panchina. Era uno di quei vecchi che non si erano asciugati con l’età, che doveva curarsi di più per non dare l’idea di essere sporco. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, Madonnina proteggimi, e uscì.
Niente ascensore: per Dio, posso ancora farle due rampe di scale. Alfio sentenziava che era tirchio e la corrente costa, ma quell’altro era terra da vermi da un anno e tre mesi, lui, il tirchio, vivo e vegeto. Così imparava!
Sul portone s’incastrò con una ragazzina imbambolata sul cellulare, che non gli cedette il passo: «Scusa», disse di sfuggita, Gino sbuffò, maledisse l’ascensore che l’aveva partorita e spazzolò con forza il cappotto. C’era odore di soffritto nell’androne: colpa degli indiani del primo piano, sicuro; tutti uomini, chissà che c’entravano l’uno con l’altro?
Coi guanti strinse il bavero e camminò fino alla panchina. Stava lì deserta, gelida come l’Amiata, a tener d’occhio il traffico che sfiorava quel quartiere così poco interessante da non aver neppure un cantiere in corso. Era la sua panchina, ora che non la divideva più con Alfio.
Allargò il sacchetto della Coop e si sedette con un lamento nato come un ghigno sfuggitogli di mano, faccio suoni da vecchio ormai, faccio fatica a piegarmi.
Aveva già salutato un paio di quelli che correvano: oltre alle macchine c’erano questi che andavano di corsa, vestiti attillati come finocchi, rintronati di musica. Ai suoi tempi non si esponevano gl’imbarazzi a quel modo, ora invece... Colpa delle Olimpiadi, tutti inguainati anche lì; chissà se la sera poi, si distinguono tra maschi e femmine.
Qualcuno lo aveva già visto, qualcuno gli sembrava nuovo, tutti avranno pensato che era un vecchio solo. Gino oscillava tra il: non me ne frega niente, e il: è vero, ma non me ne frega un tubo uguale. Scartò un Pocket Coffee e mise l’incarto in tasca. Aveva arricchito la Ferrero e loro non sapevano neppure che esisteva. Peggio! Ho mantenuto il vizio a quel mangiapane a tradimento di Alfio che guai se se li comperava! Gliene mangiava uno per mattina, e se stavano di più anche due. In casa la spesa si divideva, questo era vero, ma gli sfizi ognuno si pagava i propri: quell’altro le sigarette, lui i cioccolatini. Però Gino non fumava, in compenso Alfio era onnivoro, parolina appropriata imparata dalla Settimana Enigmistica.
Fu un piccolo terremoto a riportarlo lì e a dirgli che non era più solo. Il mollusco del portone, quella che non lo aveva neppure calcolato si era seduta, accartocciata sul telefono, lo zaino in mezzo a far barriera. La guardò con risentimento, ma quella manco si era accorta, così salutò un altro corridore pentito delle abbuffate di Natale. La ragazzina chiese: «Eh?».
«Eh, che?».
«Diceva a me?», meno male, era passata al lei.
«Salutavo quell’altro». Staccò per un attimo gli occhi dallo schermo, guardò il runner che si allontanava.
«Lo conosce?».
«No».
«E allora perché saluta?».
«Mica fa danno». Si guardarono per un secondo o due, poi tornò a scavare i significati profondi dell’esistenza nell’i-Phone. Sembrano palombari, questi ragazzini. Cominciò a valutarla con lo schema che usava con tutti: capelli corti dai colori misti, una felpa col cappuccio che usciva dal piumino, e scarpe col carrarmato alto come gli astronauti. Tutto ferocemente nero, manco Diabolik! Ma in classe, erano tutti così?
«E quel ciuffo?», le chiese Gino.
«Perché, che ha il ciuffo?», se lo toccò.
«Se fossi mia figlia per lo meno sarebbe di un colore solo».
«A mia madre non gliene frega niente».
«Il babbo?».
«Ha da correre dietro alle badanti della nonna».
«Anche lui un maratoneta», e col capo indicò l’ultimo runner, che s’intravedeva alla fine dello stradone. La ragazzina fece una smorfia che voleva essere un sorriso. O forse era solo una smorfia.
Gino alzò gli occhi: la conferma che il sole non sarebbe uscito lo rassicurò nella depressione. Amen! Era un filo sottile a cui aggrapparsi, un’abitudine tale e quale la solitudine. Alfio gli diceva che era patico-qualcosa, ancora un parolone del Bartezzaghi. In una mattina era in grado di snocciolarne più d’una per fargli capire che ci teneva. E anche lui a quell’altro: dividevano casa e i cioccolatini non li dava a chiunque.
Ne porse uno alla ragazzina.
«Grazie, fa schifo», disse senza alzare gli occhi.
«Prego, vostra delicatezza». Lei fece spallucce. «Perché non sei a scuola?».
«Uffa! Ma chi sei, la gestapo?».
«Era per dire».
«È il mio compleanno e il mio ragazzo mi ha mollata e siamo in classe insieme, contento?», intravide un umidore negli occhi. «Anche quello stronzo del babbo l’ha scordato», la voce rabbiosa, con un’eco di pianto lontana.
«E le tue amiche?».
«Quelle…».
Gino provò disagio. Era la puzza degli scarichi. Manco fino ad allora avesse respirato incenso. Aveva l’istinto in allarme che gli diceva di andare. Via, vai via, ora, vai! Si alzò e camminò verso il parcheggio del supermercato. No, non era un miserabile e nel condominio tutti gli facevano gli auguri di Natale, e quei due finocchi dirimpetto gli lasciavano la cura delle piante quando andavano in vacanza, e quando tornavano gli portavano una calamita: c’aveva il frigo pieno di calamite.
Era che non s’era mai preso cura di un’adolescente, e le uniche persone a cui aveva voluto bene davvero erano Anna, la sorella, e Alfio. La Bruna se n’era andata troppi anni fa e lei era un altro discorso. Si voltò a guardare la panchina con quel cosino nero avvoltolato, le mani ferme a stringere il telefono. Lacrime non ce n’erano, ma non ci vedeva più bene neanche da lontano. No, gli pareva troppo da affrontare. Alfio gli avrebbe dato del vile, e da vile proseguì fino al supermercato: erano dolori giovanili, passavano e formavano il carattere!
Ma di fronte alle porte scorrevoli, proprio in mezzo al passo, le parole che gli vennero in mente furono vecchio stronzo. S’immobilizzò, la sporta che gli penzolava dalle mani, la gente che gli chiedeva permesso col carrello vuoto. D’esser vecchio già mi girano gli zebedei, stronzo poi! Quando era morto Alfio e si era ritrovato solo, se qualcuno si fosse fermato a parlargli… Invece niente: le condoglianze per le scale e tutti che filavano dritto. Dei giorni aveva lasciato la porta accostata nella speranza che qualcuno entrasse solo per dirgli che era aperta, le chiavi fuori, forse non si era accorto? Aveva la macchinetta del caffè sempre pronta. L’avrebbe offerto anche a un’indianino, se si fosse presentato.
«Ti levi di mezzo?», si sentì dire mentre faceva dietrofront e tornava verso la panchina, non guardò neppure la faccia del babbeo che aveva fretta di passare, manco ci fosse il razionamento.
Di fronte all’esserino astronauta che singhiozzava si stirò il cappotto, le porse la mano e disse: «Eddai, su!».
«Ce l’hai ancora un Pocket Coffee?», tirò su col naso.
«Sì, uno, ma che non diventi un vizio».