Ce ne stavano seduti con gli occhi chiusi e la faccia rivolta al sole tiepido, io e Tressette. Era un venerdì di maggio, tardo pomeriggio, e provavo quella lieve, innocente euforia di quando sei affamato e sai che ti aspetterà una bella cena.
– Per antipasto mi prendo un bel sauté di cozze – dissi.
Tressette mi diede di gomito, aprii gli occhi, abbassai lo sguardo e presi la canna che mi passò.
– Cominciate ad andare – mi fece. – Io vi raggiungo più tardi.
Espirai il fumo. – E perché?
– Basetta vuole che vado al circolo da Cutiello a ritirare dei soldi.
– Basetta? Ancora lavori per quel pezzo di merda?
– Non ti far sentire. Lui è il boss, e un domani potrei prendere il suo posto.
Scossi la testa. Erano quasi due anni che non ci vedevamo, ma Tressette non era cambiato. Era un “malato di malavita”, come molti altri, con la differenza che lui aveva una discendenza – o almeno, questo era quello che aveva sempre dichiarato – che lo portava a galvanizzare questa sua patologia: era il nipote di Lucky Luciano, e aveva il vizio di ribadirlo a ogni occasione, manco fosse una medaglia al valore da portare appesa in petto. Si diceva che il padre di Tressette fosse frutto di una storia clandestina che Luciano aveva avuto con una donna napoletana durante la sua permanenza nella città partenopea, alla fine degli anni Quaranta.
Arrivò Gerardo. – Siamo pronti?
Gli passai la canna. – L’amico qua dice che ha da fare, ci raggiunge dopo.
– Ma come? – sbottò Gerardo. – Hai rotto tanto i coglioni per organizzare ‘sta cena, e mo’ ci appendi?
– Devo spicciare una cosa per Basetta, roba di mezz’ora.
– E non gli potevi chiedere di mandare qualcun altro?
– Ha detto che ci devo andare io. Che vi devo dire. Altrimenti venite con me e poi ce ne andiamo a mangiare.
Io e Gerardo ci guardammo. Decidemmo di assecondare la sua proposta e montammo in macchina con lui.
Durante il tragitto rievocammo gli anni in cui avevamo frequentato lo stadio. Andavo matto per tutto ciò che riguardava la Terrace Culture e il Casual Style. Gerardo aveva qualche anno più di noi, aveva vissuto nove mesi a Londra con una ragazza inglese e possedeva un vasto repertorio di riviste, musica, libri. Mi passava LP e musicassette dei gruppi Punk, Oi! e Ska. Fanzine, libri fotografici sullo stile Skinhead e la poca roba che si trovava tradotta in italiano. Rude Boys, Skins, Mods. L’Inter City Firm del West Ham, i Bushwakers del Millwall e il fenomeno Hooligans. Amavo quelle storie sui ragazzi inglesi della working class che venivano dai quartieri proletari e violenti delle periferie.
All’epoca, dalle nostre parti, la maggior parte dei ragazzi si accontentava di ascoltare un po’ di musica leggera italiana in compagnia della fidanzata, o si adeguavano al genere popolare che invadeva vicoli e rioni e sarebbe poi stato definito neomelodico, oppure se ne andavano in discoteca a fare il pieno di house e techno dopo essersi calati acidi e pasticche. La curva era uno di quei posti in cui potevi trovare quei pochi che non si adattavano, che non erano soddisfatti di seguire il gregge. L’atteggiamento della curva restava fedele alle tradizioni della propria terra rifuggendo i luoghi comuni, e ti diceva che dovevi andare avanti a testa alta nonostante i problemi, nonostante tutto.
Gira e rigira, ogni volta che si parlava di quel periodo, usciva sempre fuori lo stesso episodio. Risaliva a una vecchia trasferta in cui, durante i tafferugli, mi ero beccato una coltellata nella natica.
– Pacche bucate! – mi prese in giro Tressette.
Gerardo batté le mani, ridendo a crepapelle. – E menomale che quel soprannome non ti è rimasto addosso!
– Per me non fu tanto divertente – dissi cercando di contenerli.
Nel frattempo eravamo arrivati al circolo di Cutiello.
Tressette parcheggiò poco distante dall’ingresso, infilò la mano sotto il sedile, tirò fuori una pistola e se la infilò nella cintola coprendola con la maglietta.
Mi allarmai. – Ma che è ‘sta cosa?
– Che? – si sporse dal sedile posteriore Gerardo, che non aveva assistito al movimento.
– Stai calmo – mi fece Tressette. – È solo per fare scena, l’ultima volta che sono venuto qua hanno fatto un po’ gli spavaldi. Torno fra cinque minuti.
Aprì lo sportello e si avviò.
– Si può sapere che è successo? – mi chiese Gerardo.
– Si è portato il ferro dietro perché si deve atteggiare. Ma a te ti pare normale questo?
– Non penso che è così deficiente che ci portava con lui se sapeva che non era una cosa tranquilla.
– Gera’, detto fra me e te, io non ce lo vedo proprio a Tressette a fare ‘sta vita. È montato, ostenta troppo.
– È stato sempre così, lo sai. Pure io ultimamente lo stavo sentendo poco, ma quando mi ha chiamato per organizzare la cena mi ha fatto piacere, perché comunque gli voglio bene.
– Che c’entra, pure io gli voglio bene, è per questo che lo sto dicendo. Anzi, dopo ci voglio parlare.
– Ci fai poco, sai quante volte ci ho provato. Il problema grosso è che si sente un predestinato.
Giunse una BMW. Si fermò sgommando e ne scesero quattro uomini; li conoscevo, erano tutti affiliati al clan di Basetta.
Mi accucciai sul sedile. – Ma che cazzo sta succedendo?
Gerardo fece lo stesso.
Feci capolino e li vidi entrare armi in pugno nel circolo.
– Gera’, qua le cose si mettono male.
– E che facciamo?
– Ce ne dobbiamo andare! Muoviamoci!
Non avemmo nemmeno il tempo di riflettere, udimmo degli spari, uscimmo dall’auto e corremmo a nasconderci dietro un muro che separava il lato destro del circolo da un garage abbandonato.
Ci trovammo Tressette, era ferito di striscio a una spalla e tremava.
– Ma dove cazzo ci hai portato? – lo aggredì Gerardo.
Lo fermai e mi rivolsi a Tressette. – Come hai fatto a uscire?
– Mi sono buttato dalla finestra e sono passato per dietro.
– Dammi le chiavi della macchina! – gli intimai.
– No, no – si rifiutò. – Aspettiamo qui, guardate.
Gli uomini di Basetta uscirono, montarono sulla BMW e sfrecciarono via. Un attimo dopo uscirono due sodali dei Cutiello, uno zoppicava e si reggeva al compare lasciandosi dietro una scia di sangue. Salirono su un SUV e partirono.
– Adesso ce ne possiamo andare – fece Tressette. – Là dentro erano in quattro.
– E Cutiello? – gli chiesi.
– Sta steso per terra insieme a un altro dei suoi.
– L’hai ammazzato tu?
– Ma che, io non ho fatto proprio niente, la mia pistola era scarica.
– Scarica? – gli fece Gerardo.
– Basetta dice che non sono ancora pronto per portare il colpo in canna.
– E allora che cazzo te l’ha data a fare?
– Perché gli ho detto che intanto la volevo.
– Plastic Gangster – lo sbeffeggiò Gerardo.
– Che hai detto?
– Un guappo di cartone.
Tressette gli andò sotto a brutto muso e dovetti mettermi in mezzo per dividerli.
Non fu difficile ricostruire quello che era successo. Poco prima, mentre noi eravamo rilassati a fumarci la canna e a pregustarci la cena, Basetta e Cutiello avevano avuto una brutta discussione, uno di quegli strappi che non potevano essere ricuciti. Basetta aveva sfruttato Tressette per fare da esca, sapeva che sarebbe stato aggredito e questo gli avrebbe dato il motivo per intervenire subito e scatenare la guerra. La cosa allucinante è che l’aveva mandato lì senza dirgli nulla, con una pistola scarica, e solo per caso Tressette non ci aveva lasciato la pelle.
Quel giorno sancì la fine della nostra storica amicizia, e i tempi dello stadio, delle trasferte e dei turbolenti viaggi che avevamo condiviso restarono solo un amaro ricordo. Tressette non lo vedemmo più.
Per fortuna, io e Gerardo non subimmo ripercussioni per quella brutta faccenda. Partirono le indagini e Tressette fu arrestato insieme ad altri, ma non menzionò mai i nostri nomi, né il fatto che eravamo in sua compagnia.
Basetta fu assolto da tutte le accuse.
Tressette sta scontando trent’anni per un reato che non ha commesso.