Io, Riccardo, lo trovo di una certa sensualità.
Tozzo, gli occhi infossati e spiritati, uniti da un enorme naso, gli conferiscono un aspetto ferino. Il grasso fa capolino dai jeans strappati, e agita una sigaretta con un grossa unghia, che tuttavia non cade, disegnando cerchi di fumo nel dehor. I capelli tinti di un rosso pallido, inizio a scorgerne la ricrescita. Sono magnetizzato dall’anello, una pietra di plastica rossa vi è incastonata sopra, mentre mi parla di un collega molto affascinante che non lo considera. Io sto fluttuando sul tavolo del bar, il suo amico continua a fissarmi, il viso nascosto dietro i cerchi di fumo, ma so che i suoi occhi sono puntati su di me. È più grande di lui e sposato, ma sa che segretamente le sue attenzioni sono ricambiate. Il caffè riposa sul fondo della tazzina, un miscuglio di zucchero bianco e inchiostro nero mi rivela il futuro: io non sarò più qui. Gli chiedo se gli va di fumare, perché no rispondono, paghiamo e ci dirigiamo sotto l’arco della vittoria, seduti con le gambe tese ai piedi di un angelo di marmo, scaldo la pietra nera con l’accendino dell’amico: si chiama Michele, sostiene di avermi già visto da qualche parte, ma sono in tanti posti.
La pietra ha compiuto il suo eterno circolo ed è ritornata polvere, questa non gratta, dice Michele, questa ti fa abbioccare, ti culla nel letto, e tira una boccata illuminando le scale. Un gruppo di ragazzini si avvicina, lanciando occhiate incuriosite. Una lieve pioggia rinfresca la cute, appannando gli occhiali e a Riccardo viene un’idea e ci chiede di seguirlo senza fare domande, ma non riesce a trattenere il segreto: un amico di un amico è un discendente del profeta, abita in un vicolo dietro l’ex Italsider e ha roba buona, non come la mia. Michele mi fa un cenno, scrollando la testa, non ascoltarlo. Suoniamo al citofono ma il Sayyid, il parente, si affaccia dalla finestra dicendo di non rompere. Gli occhi azzurri, sporgenti e iniettati di sangue, ci scrutano da capo a piedi, Riccardo gli dice che è solo per poco. Ci fa entrare. L’ambiente è in penombra, la luce entra debolmente dalle veneziane, illuminando un quadro raffigurante una mandria di elefanti bianchi, le proboscidi abbeverarsi in oceani dorati. Il bagliore illumina anche coppie di sandali ai lati dell’atrio, strisce di tuniche colorate e occhi scintillanti scrutarci rasenti alle pareti, faccio finta di niente e ci sediamo al tavolo della cucina. Michele chiede dov’è il bagno e ci sparisce dentro.
Il Sayyid estrae una panetta avvolta nella seta da un barattolo di frutta secca, l’odore impregna subito l’aria e Riccardo sgrana gli occhi. La prendiamo. Il padrone di casa dice che può darcela anche gratis, se facciamo un favore per lui, e oltre all’interesse ora ha anche la nostra attenzione: l’altro giorno ha fatto un buco nel muro, oltre c’era un angelo che lo ha messo in guardia: presto uomini a cavallo verranno da terre verdi e piatte per ucciderlo. Michele non è ancora tornato. Se noi lo aiutiamo, ci farà avere accesso al suo giardino, dobbiamo solo portargli la testa del Khan. Dei fagioli bollono in una pentola, colorando l’acqua di nero. Riccardo accetta. Attendono la mia risposta, tamburellando con le dita sul tavolo di mogano. Io rispondo che l’Asia mi sta stretta e che non sono più qui, i loro occhi mi guardano scomparire nel pavimento.