Una versione dei fatti (un rapporto di minoranza ritenuto inattendibile, riportato qui solo per scrupolo documentario) attesta che, settantadue ore dopo il loro primo ballo sulla gradinata del Grand Hotel, Jay e Daisy sedevano su una panchina in riva al mare, sotto una matassa di seta rosata da cui si srotolavano bavosi filamenti di luce ritorta. Un chiaro di Luna da uccidere o per cui essere uccisi.
Il cielo azzurro cupo era punteggiato da batuffoli di nuvole a forma di cavolfiore – alcune di un cobalto intenso, altre celesti – circonfuse dal biancore pulviscolare delle vie lattee. L’acqua era blu di Prussia, la spiaggia di un tono fra il violaceo e il rossastro, con macchie di alghe brune qua e là.
Lei aveva in mano un regalo di Jay: un carillon che metteva in scena un poetico spettacolo circense. Un’elefantessa danzante, in equilibrio su una palla, volteggiava leggera davanti a un topo col naso all’insù, tenendo in equilibrio sulla proboscide un ombrellino bianco e rosso, i colori di Ariminum, al ritmo dell’Entrata dei Gladiatori di Julius Fučík suonata dalla London Videogame Orchestra.
D’improvviso i due giovani furono accerchiati da uno stormo di volatili: proveniva da un peschereccio scivolato davanti a loro in direzione del porto.
«Questi uccelli, Daisy, non assomigliano al Roc? Sembrano tanti piccoli Roc in miniatura, non credi?».
Daisy distolse gli occhi, quella sera verdissimi, dal carillon e li rivolse verso il viso di lui, incorniciato dal biondo dei capelli – che, arrivando ai toni dell’arancione, passava per il giallo cromo e il limone pallido.
«No, a me sembrano più pipistrelli, degli strani pipistrelli bianchi».
«Saranno Vampiri travestiti» rise Jay.
E poi le creature attaccarono.