«Ho perso la rotta, timoniere, non capisco in quale direzione vuoi condurre la tua barca: questa storia non ha né capo né coda» mormorò con voce incerta il Capitano, rivolgendosi al JubJub, l'altro uccello dal volto umano appollaiato sulla sua spalla come il pappagallo di Long John Silver. L’uomo era stravaccato su uno dei mucchi di planulinae ariminensis d’Orbigny disseminati lungo la Costa di Pollock, non lontano dall’orologio molle che colava moccio temporale sul Roc e il Maestro.
«Yeah, super! Buon punto!». Una voce gli giunse dalle tasche dei pantaloni. Il Capitano estrasse lo smartphone e lo spense, ammutolendo lo Psicanalista che continuava a dire: «Bravissimo! Grande! Sei forte!». Poi chiuse gli occhi e crollò.
Un eccesso di acido lattico prodotto da un paio d’ore di allenamento intensivo? Può darsi, ma sembrava sbronzo, o sulla buona strada per esserlo. Tracagnotto e grassottello, con il gessato di almeno due misure inferiore a quanto sarebbe stato necessario e tutto stazzonato, la scritta Yo non soy il marinero sulla maglietta che lasciava scoperto l’ombelico, la bombetta di paglia grigia calcata in testa e le scarpe da tennis rosso fuoco ai piedi, dava un pessimo spettacolo di sé. Assomigliava al Black Finnegan del racconto di Borges La morte e la bussola: “un antico criminale irlandese ora offuscato e quasi annullato dall’obesità”. La Ciurma avrebbe stentato a riconoscere il brillante affabulatore che non perdeva occasione per esibire la propria cultura in ogni campo dello scibile umano. Nonostante il pessimo carattere, gli uomini adoravano il modo che aveva il comandante di infarcire i discorsi con riferimenti, sempre fuori luogo, a Shakespeare, Salgari o Conrad – oltre a tutto quanto aveva scritto Melville sulla caccia alle balene.
Il Capitano, in particolare, vantava una grande conoscenza della cartografia, che considerava “un modo per fare splendidi inventari di tutte le cose”. Una carta geografica poteva comprendere idee sulla creazione, concetti di astronomia, cenni a teoria e pratica del golf, nozioni di botanica, saggi di critica letteraria. La definiva “un sistema di affinità morfologiche” fondato sull’analogia tra i soggetti più diversi della storia universale: la pittura a olio e la geometria euclidea, il fatalismo millenaristico e il jazz. Collezionava in maniera ossessiva quanto aveva a che fare con quella passione, che nutriva dalla più tenera età («fin da bambino – si vantava – ho avuto un sesto senso, il senso geografico»): dalle riproduzioni delle mappamundi medioevali alle registrazioni catastali degli edifici di Ariminum, passando per le cartine di Fortnite. Più di tutto, amava i labirinti: univoci, manieristici, rizomatici o polivoci che fossero (secondo la tassonomia di Eco)
Non si stancava di narrare aneddoti che lo vedevano protagonista di complesse interazioni fra mappe e territori. Una volta tentò di realizzare con una stampante 3D un plastico in scala 1:1 dell’impero ariminense, da lui definito “il supercontinente che fa da asse dell’Universo”. Senza fortuna: l’opera, mai terminata, fu abbandonata alle inclemenze del tempo. Animali e nomadi ne ritrovano di tanto in tanto frammenti lungo la spiaggia ancora oggi. Un peccato, dato che era un magnifico “Scudo di Achille 4.0” – così il Capitano aveva chiamato quel plastico con il caratteristico gusto per le citazioni a sproposito. E del tutto compiuto, pretendeva.
«Chi dice che si tratta di un lavoro inconcluso, mente» si accalorava, specie dopo il terzo o il quarto bicchiere. «È proprio vero che il Male non è spettacolare ma è sempre umano: che divide il nostro letto e mangia alla nostra mensa! La Verità è che la mappa tridimensionale non è mai stata dispiegata. I contadini si opposero: dicevano che avrebbe coperto l’intera Nazione e chiuso fuori il Sole! Si sono ridotti a usare la Nazione stessa a mo’ di mappa e vi assicuro che non funziona altrettanto bene! La realtà, del resto, è sempre meno pratica di ciò che la rappresenta».
A parte ciò, il JubJub trovò difficile spiegarsi come il Capitano potesse dichiarare che la sua storia non aveva né capo né coda – o effettuare un’asserzione qualsiasi: nella luce incerta del crepuscolo, la faccia del corpulento compagno era del tutto vuota. Con “vuota” non intendo "senza espressione", ma proprio "priva di contenuto". Niente bocca, orecchie, naso, bulbi oculari: quel viso, in un attimo rivelatorio, sotto l’orizzonte degli eventi segnato dalla massa di capelli brizzolati e ricciuti cacciati a forza sotto la bombetta, fu per il JubJub l’apertura su un buco nero kubrickiano, uno dei wormhole di Donnie Darko, un cunicolo di Einstein-Rosen fra le dimensioni dello spazio-tempo, un Powehi (parola hawaiana tratta dal canto cosmogonico Kumulipo che significa “oscura e aggraziata sorgente di creazione senza fine”); un Aleph borgesiano, forse, un orifizio sacro attraverso cui era possibile contemplare mondi interi, Universi infiniti e tutto quanto, ma che non lasciava trasparire niente di niente.