«Ho perso la rotta, timoniere, non capisco in quale direzione vuoi condurre la tua barca: questa storia non ha né capo né coda» mormorò con voce incerta il Capitano, rivolgendosi al JubJub. Lui e l’uccello, appollaiato sulla sua spalla come il pappagallo di Long John Silver, non erano lontani dall’orologio molle che colava moccio temporale sul Roc e il Maestro.
L’uomo era stravaccato su uno dei tanti mucchi di planulinae ariminensis d’Orbigny disseminati lungo la Costa di Pollock (chiamata anche Ficocle, che in ariminense significa “luogo celebre per le alghe”). Un eccesso di acido lattico prodotto da un paio d’ore di allenamento intensivo? Poteva darsi, ma sembrava sbronzo, o sulla buona strada per esserlo. Tracagnotto e grassottello, con il gessato stazzonato, la scritta Yo non soy marinero sulla maglietta che lasciava scoperto l’ombelico, la bombetta di paglia grigia calcata in testa e le scarpe da tennis rosso fuoco ai piedi, dava un pessimo spettacolo di sé. La Ciurma avrebbe stentato a riconoscere il brillante affabulatore che non perdeva occasione per esibire la propria cultura in ogni campo dello scibile umano. Nonostante il pessimo carattere, gli uomini adoravano il modo che aveva il loro comandante di infarcire i discorsi con riferimenti a Omero, Salgari o Conrad – oltre a tutto quanto aveva scritto Melville sulla caccia alle balene.
Era curioso, ma per qualche verso inevitabile, che fosse stato proprio il JubJub a riuscire laddove gli altri avevano fallito: trovare il Capitano per scortarlo alla Fortezza Bastiani affinché apportasse il suo contributo alla festa in onore del Maestro. Il rapporto fra i due era ambivalente – come tutti i rapporti solidi, del resto. Il JubJub era lo sciamano, l’aedo, il menestrello del gruppo. Ma aveva un modo caotico, irrituale e disordinato di comporre canzoni e poesie. Amava procedere per accumulazione di personaggi, eventi e situazioni senza alcun rispetto per le canoniche cinque W del bravo Scrittore (Who? Where? What? When? Why?). Forse voleva così risultare destabilizzante, sorprendente, spiazzante, ma il Capitano perdeva ben presto il filo e si annoiava. O, peggio, si irritava fortemente. Se gli elementi messi in campo fossero stati in numero limitato, circoscritto, avrebbero destato in lui attesa e curiosità; ma la gran quantità di trovate, rinvii, anticipazioni, disquisizioni, approfondimenti, insomma la valanga di artifici retorici che venivano accumulati in pochissimo spazio lo travolgeva. La densità delle informazioni di contesto, delle descrizioni di oggetti e luoghi, di comunicazioni di servizio, unita per sovrapprezzo alla apparente mancanza di concrete indicazioni sulle motivazioni che animavano la miriade di personaggi protagonista dei voli pindarici dell’uccello poeta, «ne soffocava», per usare la metafora del Capitano, «il fuoco tra le parole, come nella caldaia di un battello a vapore in cui il carbone sia stato troppo strettamente ammassato».
Quando si incrociavano i due quindi avevano continui battibecchi, se non veri e propri litigi: eppure erano attratti l’uno dall’altro. Il Capitano riteneva che il mondo fosse regolato da un ordine infallibile, da una serie di cause ed effetti, da un sistema logico fondato sul principio del tertium non datur. Era il retaggio della sua formazione: aveva preso il brevetto alla Scuola Navale Militare di Ariminum, un istituto legato alla tradizione neo-tolemaica di estrazione panottica benthamiana. Il Jubjub, invece, si definiva un «anarchico platonico». Anarchico come tutti gli spiriti autenticamente liberi; platonico perché ossessionato dalla trascendenza e dalle dicotomie. Il JubJub ne vedeva ovunque – negli amori romantici, negli odi politici, nei modelli teorici della scienza, nelle applicazioni pratiche della tecnologia – ed era alla continua ricerca della terza componente (la sintesi) che avrebbe reso perfetta ogni coppia di tesi e antitesi.
Sotto il profilo retorico, ne discendeva che l’uccello propendeva per uno stile volto a riciclare, ricombinare, connettere fra loro linguaggi, strumenti e forme letterarie del passato creandone di nuovi, che anticipavano il futuro – mescolando prosa e poesia, prosodia e narrativa, testo e metatesto. Mentre il Capitano si teneva a un approccio mimetico e tradizionale (anche se in molti sospettavano qualche esagerazione nei suoi resoconti di viaggio) – che però negli ultimi anni era sempre più spesso al servizio della rappresentazione di una realtà vuota, caotica e priva di direzioni. La visione alienata di un depresso, quale in effetti stava diventando.
Fu quindi tipica la frase che il rigido tradizionalista riuscì ad aggiungere utilizzando l’esigua riserva di lucidità a disposizione: «Hai perpetrato la morte dell’autore, del lettore, della storia. Sei un serial killer e perciò sarai giustiziato».
Esausto per quest’ultimo sforzo, chiuse gli occhi e crollò.
Il JubJub attese con pazienza che si riprendesse. Intanto cercava di trovare una risposta alle ultime osservazioni che il Capitano gli aveva rivolto, tracciando mentalmente un ritratto dell’amico. Se fosse riuscito a focalizzarsi su questo, sarebbe riuscito a elaborare una replica che li potesse mettere d’accordo. Come al solito, voleva trovare la sintesi che risolvesse una dialettica: di cui, in quel caso, loro stessi erano la tesi e l’antitesi.
Dunque, vediamo, si disse. In primo luogo, il Capitano vantava una grande conoscenza della cartografia, che considerava “un modo per fare splendidi inventari di tutte le cose”. Una carta geografica poteva comprendere idee sulla creazione, concetti di astronomia, cenni a teoria e pratica del golf, nozioni di botanica, saggi di critica letteraria. La definiva “un sistema di affinità morfologiche” fondato sull’analogia tra i soggetti più diversi della storia universale: la pittura a olio e la geometria euclidea, il fatalismo millenaristico e il jazz. Questa tendenza all’accumulo piaceva al JubJub, ma, al contrario di quanto faceva il volatile narratore, il Capitano la riportava alla necessità di uno sviluppo lineare. Sulla porta della sua cabina aveva inciso questa frase: “la carta geografica, anche se statica, presuppone un’idea narrativa, è concepita in funzione d’un itinerario, è un’Odissea”. Collezionava in maniera ossessiva quanto aveva a che fare con quella passione, che nutriva dalla più tenera età («fin da bambino – si vantava – ho avuto un sesto senso, il senso geografico»): dalle riproduzioni delle mappamundi medioevali alle registrazioni catastali degli edifici di Ariminum, passando per le cartine di Fortnite.
Più di tutto, amava i labirinti: i classici “a spirale”, che rimandano alle viscere di un animale sacrificale o alle braccia di una galassia; i dedali secenteschi, “a fronda d’albero”; quelli “rizomatici” dei film Labyrinth e Shining, in cui i corridoi sono radici di piante collegate fra loro; i contemporanei, “polivoci” come le incisioni di Escher e il Cube di Vincenzo Natali – dove è impossibile recuperare la propria posizione nel mondo.
Non si stancava mai di narrare aneddoti che lo vedevano protagonista di complesse interazioni fra mappe e territori. Una volta tentò di realizzare con una stampante 3D un plastico in scala 1:1 dell’impero ariminense, da lui definito il “perno geopolitico del mondo” se non “il supercontinente che fa da asse dell’Universo”. Senza fortuna: l’opera, mai terminata, fu abbandonata alle inclemenze del tempo. Animali e nomadi ne ritrovano di tanto in tanto alcuni frammenti lungo la spiaggia ancora oggi. Un vero peccato, dato che era un magnifico “Scudo di Achille 4.0” – così il Capitano aveva chiamato quel plastico con il caratteristico gusto per le citazioni a sproposito. E del tutto compiuto, pretendeva.
«Mente chi dice che si tratta di un lavoro inconcluso» si accalorava, specie dopo il terzo o il quarto bicchiere. «È proprio vero che il Male non è spettacolare ma è sempre umano: che divide il nostro letto e mangia alla nostra mensa! La Verità è che la mappa tridimensionale non è mai stata dispiegata. I contadini si opposero: dicevano che avrebbe coperto l’intera Nazione e chiuso fuori il Sole! Si sono ridotti a usare la Nazione stessa a mo’ di mappa e vi assicuro che non funziona altrettanto bene! La realtà, del resto, è sempre meno pratica di ciò che la rappresenta».
Per queste caratteristiche il Capitano era il benvenuto alla Fortezza Bastiani dove, fra una scorreria e l’altra, si ritrovava con gli accoliti – vitelloni che passavano la giornata tra i bar, la vodka e l’assenzio, le peripatetiche passeggiate nella pineta, le meditazioni in riva al mare, e, non da ultimi, gli esperimenti neuroscientifici. Convinti, ciascuno per diversi motivi, che il cervello sia il motore della ragione e la sede dell’anima, non si stancavano mai di analizzarne le funzioni, sotto la guida del Maestro.
Tale dunque era, in un guscio di noce, una possibile raffigurazione dell’amico, dei suoi interessi e delle sue motivazioni, dei comportamenti e degli atteggiamenti tipici. Ma, nonostante questo tentativo di andare a fondo del suo carattere, per capirlo meglio e vincerne l’ostilità, il JubJub trovò difficile spiegarsi come il Capitano potesse definire senza né capo né coda la storia che gli stava raccontando. In quel particolare momento, anzi, si chiese come potesse effettuare un’asserzione qualsiasi: nella luce incerta del crepuscolo, la faccia del corpulento compagno era vuota. Con “vuota” non intendo “senza espressione”, ma proprio “priva di contenuto”. Niente bocca, orecchie, naso, bulbi oculari: quel volto, in un attimo rivelatorio, sotto l’orizzonte degli eventi segnato dalla massa di capelli brizzolati e ricciuti cacciati a forza sotto il cappello di paglia, fu per il JubJub l’apertura su un buco nero kubrickiano, uno dei wormhole di Donnie Darko, un cunicolo di Einstein-Rosen fra le dimensioni dello spazio-tempo, un Powehi (parola hawaiana tratta dal canto cosmogonico Kumulipo che significa “oscura e aggraziata sorgente di creazione senza fine”) – un Aleph, un orifizio sacro attraverso cui era possibile contemplare mondi interi, Universi infiniti e tutto quanto, ma che non lasciava trasparire niente di niente.
Quando il Capitano si riprese, o almeno fu in condizioni più o meno accettabili, lui e il JubJub si rimisero in marcia. Senza scambiarsi più una parola, giunsero alla Fortezza Bastiani che aveva appena aperto. In onore del Maestro, i muri erano stati ricoperti da graffiti che illustravano scene della sua vita. Su una grande mensola, fra le bottiglie di vodka e di assenzio, faceva bella mostra di sé un recipiente di cristallo che ne conteneva la prima barba, come se fosse una reliquia.
Ancora deserto, il locale ben presto si sarebbe popolato: ma, a quell’ora, sui trespoli di fronte al bancone (i Norma rossi disegnati da Molina) erano seduti appena in due: il Maestro e Tim “Nanny” O’Nan, il Custode, vestito con una lunga camicia verde, stretta ai fianchi da una cintura color ciliegia. Con un fragoroso «Yo ho, Yo ho, a whaling we will go!», seguito da un altrettanto tonitruante «Buon compleanno vecchio krang (1)!», rivolto al Maestro, ai due si aggregò il Capitano, accolto da saluti enfatici e pacche sulle spalle. Finalmente fu chiara la ragione per cui, pur essendo arrivato ad Ariminum già da un po’, non si era ancora ricongiunto agli amici. La vecchia Ciurma, spiegò sotto il fuoco di fila delle domande che gli vennero rivolte, si era sciolta e ne aveva dovuto mettere insieme una nuova. Concluso il reclutamento e lasciato l’addestramento dei novizi in mano al suo secondo, adesso era in vacanza.
Seguirono altre grida di giubilo e brindisi alla salute della Vita, dell’Universo e di tutto quanto. Solo il Roc non proferì verbo. Abbandonato in un angolo come i pantaloni sporchi di un ubriaco, teneva le ali strette intorno alla testa e gli occhi chiusi. Con ogni evidenza, non era in grado di unirsi ai festeggiamenti.
Il palco dove si esibivano le band locali, ricavato da una cappella duecentesca dall’ottima acustica (le diverse parti dell’edificio che configuravano la struttura complessiva della Fortezza Bastiani si erano sviluppate nei secoli, in modi e tempi diversi, su fondamenta di origine addirittura mesolitica), era addobbato con palloncini colorati, strisce filanti, nastri e cartelli con la scritta Happy Birthday. Anche lì non c’era nessuno. Qualcuno (Tim, probabilmente) aveva predisposto una decina di spartiti su altrettanti leggii, ma i suonatori di corno elettrico che avrebbero allietato il convito non sarebbero arrivati prima di mezzanotte. Il JubJub colse l’occasione per volare al mixer audio, accendere un microfono e intonare una mazurka ariminense:
«Amarcord when you were a burdèl,
you shone cam e Sòl quan le pè un vasèl.
Shine on you craaazy… diamond!
Adès there’s a guérd in your eyes,
tél cvèl a nègher bùs in the sky.
Shine on you craaazy… diamond!».
«Chiudi quella boccaccia da iguana, fottutissimo Jub, o ficcaci dentro qualche cadavere! Ho la testa che mi scoppia: quel maledetto diamante mi ha fatto esplodere il cervello!» gridò il Roc.
«Sento un tremendo fragore nelle orecchie» si lamentò ancora.
«There’s nothing to cry about, cause, Muninn, Muninn, you’re out» fu il laconico commento del JubJub, prima di riprendere a cantare. Poche parole, ma sufficienti a rimbombare nella scatola cranica del Roc con l’assordante ronzio di uno sciame di vespe – impregnate di fumo ed esalanti un tetro odore di morte, quando impazzite travolgono le incerate fabbriche nel tentativo di scampare all’amaro incendio del proprio alveare, stridendo, ronzando e proferendo incomprensibili bestemmie imenotteresche.
«Silenzio, maledizione!» urlò di nuovo il Roc al JubJub, il quale ebbe la delicatezza di troncare l’esibizione da Raul Casadei della domenica.
«Devo mangiare qualcosa per riprendermi» disse quindi a voce più bassa.
1 Krang: termine marinaresco che indica la carcassa di una balena dopo che è stato levato il grasso.