È l’Inverno del ’93, il monco ha tredici anni e una bottiglia di Jack Daniel’s.
Fuori dalla cancellata, danno di gas ai motorini, ridendo sguaiati, gli altri. Sono in sette. Hanno mandato lui.
A dam chei! At putrev sbrané al cùar par sta roba! Dice la vecchia.
Svita il tappo, s’attacca, si sbatte ‘n gola il collo della bottiglia, la ciuccia per bene, un’onda caramello nel vetro che schiuma e schiocca.
Oh! Dice la vecchia. Squassa la bottiglia vicino al muso del monco che squittisce rattrappendosi. S’affossa e si ritrae mentre alle sue spalle i compagni si spanciano.
Il cielo è secco, spaccato. Le nuvole sono come zolle. Elettrodotti lontani, nei campi divelti.
La casa della vecchia è scolorita, lercia, le imposte sprangate. Dalla cancellata rugginosa parte uno stradello in terra battuta che viene strangolato dall’erba alta. Un pollaio, un porcile, una gabbia per uccelli. Vuoti.
La vecchia è sull’uscio, una vestaglia color piscio le arriva appena sotto l’inguine. È come putrefatta. Slabbrata. Un’accozzaglia balorda e varicosa.
Ultma ciamà. Dice colla carne del braccio tremula, flaccida. Sorride al monco che inorridisce.
La vecchia ha la faccia porcina, impiastricciata senza alcuna decenza. Le labbra grasse e unte dal burrocacao. Butta giù il Jack Daniel’s.
At vua cat faga cla roba anca tei eh? Dice. S’alza la vestaglia ed è come se si srotolasse. Sta coll’orlo tirato su fin’al mento. Il monco corre via disgustato mente le risate della vecchia lo inseguono. Gli altri se ne vanno prima che lui possa raggiungere la cancellata, sgasano e strombettano. Il monco gli tiene dietro appiedi per un po’, poi li perde di vista.
Prima della vecchia, il monco non aveva mai visto una donna nuda. Pensa che è la cosa più schifosa che ci sia. Loro gli avevano detto che lo avrebbero portato da una vera pornostar. Non è stato così. E adesso, quel corpo lo perseguita. Così orrido e disperato si divora ogni suo desiderio. Mai più, si dice, cercando inutilmente di scacciarlo. Gli riempie la testa di parole terrificanti. È questo il maleficio che gli ha fatto la vecchia. Mentre cammina, sperando che qualcuno degli altri torni a prenderlo, il monco si accorge di avere un’erezione. Si è spaccato qualcosa dentro di lui, un liquame disgustoso trabocca nella sua intimità. Sporco, colpevole, il monco preme la protesi contro il suo sesso, come a volerselo ricacciare dentro. Mai più, ripete ossessivo, ma le parole non fanno altro che aumentare l’eccitazione che è come una vescica piena. Non riesce più a trattenerla. Si accascia. Una macchia si allarga nei pantaloni, nera, miserabile, cola sulle cosce e non smette: gli riempie le scarpe. Cercando in qualche modo di asciugare l’emorragia, il monco sente che è la sua anima che sta sgocciolando sull’asfalto. La parte più nascosta di sé, quella che lo teneva incollato alla sua infanzia.
Quando gli altri arrivano strombazzando, lo trovano disteso a terra, cianotico, con le pupille divaricate e il volto contratto da un’espressione di assoluto terrore. Il corpicino scarnato. La pelle come un velo sulle ossa.
Ridono squillanti come iene.
Lo raccolgono come una bestia schiacciata dagli pneumatici di un macchina, staccandolo dall’asfalto, e il monco viene su, grondante. Lo scuotono, lo riempiono di schiaffi, ma il monco è incosciente, schiuma, poi uno di loro gli strappa la protesi, la sventola come uno scalpo, fa finta di masturbasi, di grattarsi la testa, di scaccolarsi.
Oh-oh! dice, quando il monco rinviene, piegato in due per i conati.
Tutti quanti loro l’hanno fatto. Nessuno l'ha dimenticato.
Gli restituiscono la protesi e lui se la riattacca al moncherino.
Acsei as fa! Gli dicono dandogli delle pacche sulla schiena. Il monco tossisce, prende colore. Per un attimo si chiede che cosa dirà sua madre dei suoi vestiti zuppi, ma adesso che è con gli altri, se ne frega e scoppia in una risata, unendosi al coro delirante dei suoi amici.
Sono un uomo, pensa.