Era scoccata la mezzanotte. Le celebrazioni per il genetliaco del Maestro alla Fortezza Bastiani cominciavano a entrare nel vivo. Nani, soubrette, transessuali, sosia e ammiragli si erano susseguiti sul palco con numeri televisivi: di bassa lega, ma che proprio per questo avevano riscosso la calda approvazione dei presenti. Più tiepido, per usare un eufemismo, era stato invece l’apprezzamento per due attempati ballerini di un tip tap elegante, colto, ma decisamente poco trendy. L’animatore della serata, un vecchio attore obeso e drogato, li aveva anzi ruvidamente invitati ad interrompere anzitempo la loro danza, che solo il Piccolo Ed aveva applaudito con convizione. I due erano stati costretti a riparare nelle toilette esterne al locale, accompagnati da boati di disapprovazione, lazzi e persino lancio di bottiglie vuote. Il dee jay provvide a diffondere immediatamente una versione hip hop di Rowhide per distrarre gli astanti.
Il Capitano approfittò della pausa per offrire al Maestro il dono che aveva in serbo: un vestito nuovo, acquistato in un bazar di Samarcanda. Glielo fece indossare, obbligandolo a sostituire l’abito candido, peraltro macchiato senza rimedio di gocce temporali colate dall’orologio molle.
«Il contrasto tra il rosso della tunica e il manto blu esprime la grazia celeste inviata agli uomini, l’umano ricoperto dal divino. Dovresti dismettere una volta per sempre quel peplo bianco a cui sei tanto affezionato. Ti rende simile a Moby Dick, simbolo di un mondo in cui tutti i colori sono scomparsi e dove regna il gran silenzio mortifero degli abissi».
Il Capitano scherzava. A differenza di tutti gli altri marinai, lui stesso quando era a bordo portava una giacca nivea impermeabile all’acqua, che lo rendeva visibile in qualunque angolo si trovasse della Thousand Sunny, la sua nave. «Il mio sudario» lo chiamava con lo humor nero che aveva affinato negli ultimi anni.
«Gli abissi oceanici… L’unico luogo, tuttavia, dove risiede la possibilità della rinascita» replicò il festeggiato, che non aveva colto la battuta.
«Solo la tela bianca può essere colorata!» confermò il Pescivendolo.
Parole che vennero coperte dall’arrivo di una musica dixie-trance, più adatta a un funerale che a un compleanno. Ma la vodka scorreva in abbondanza già da tempo e i presenti non erano schizzinosi esperti di jazz contemporaneo. Battimani, hurrà e urletti entusiastici salutarono l’avvento di quelle note.
Gli strumentisti stavano entrando nel locale soffiando nei corni elettrici. I musicanti anziani venivano avanti per primi, con abbigliamenti tradizionali; seguivano i più giovani, con jeans e capelli lunghi. Tutti suonavano camminando al seguito di quattro ragazzi bardati con divise da chierichetto, che tenevano sollevata una portantina: su questa poggiavano due grandi altoparlanti. In mezzo alle casse, troneggiava una pala di legno dove era disegnato il volto del Maestro. Non era una raffigurazione realistica, ma iconografica, nel senso tradizionale. Come la prima icona non era stata realizzata dalla mano dell’uomo, ma da Gesù stesso, ponendosi sul volto un velo; così quell’immagine stilizzata alludeva al Maestro senza restituire fedelmente l’originale visibile. Ne tratteggiava l’anima. Era una manifestazione della tensione verso una riunificazione con il divino attraverso la ragione. Preso atto della cui impossibilità, restava solo la via dell’ebbrezza. E i convitati la imboccarono allegramente.
A parte il Roc, che si era ritirato nel patio sul retro per dare requie al perdurante mal di testa, solo Tim, il Custode, non era in sintonia con il clima festoso. All’arrivo del Capitano era sembrato in preda di una gioiosa euforia; stato d'animo durato però pochi minuti, sostituito da una sorta di attonita e dolorosa melanconia. Che ci fosse qualcosa che non andava sarebbe stato evidente a chi lo conosceva bene da un dettaglio. Aveva davanti a sé un piccolo uccello meccanico dorato, ibrido tra una papera e un gufo: Donald Suck, il portafortuna da cui non si separava mai. Il Custode lo caricava una prima volta a inizio serata: la bestiola si animava sollevando la testa e battendo le ali a un ritmo frenetico, fino all’esaurirsi della carica. Tim gli dava ancora vita girando la chiavetta all'arrivo di ogni nuovo bicchiere da svuotare – quindi con una certa frequenza. La musica che ne accompagnava il movimento era metallica e stridente. Causava un grande fastidio agli altri amici, ma lui non se ne dava per inteso: a ogni giro di vodka corrispondevano alcuni minuti di quella fastidiosa messinscena. Il fatto che non avesse avuto la forza di attivare il meccanismo neppure una volta, quella sera, era il chiaro indizio di una grave indisposizione.
«Non mi sento bene, I’m getting sick» mormorò difatti. L’uomo espresse il proprio malessere quasi esalando l’ultimo respiro, ma senza omettere di gettare una devota occhiata alla sculettante cameriera che, deposta sul tavolo l'acquavite al profumo di incenso e mirra, si allontanava. Si stava aprendo un varco nella calca della Fortezza Bastiani esibendo la sicurezza di Mosè fra le onde del Mar Rosso. Pur dovendosi guardare dalle attenzioni dei clienti ubriachi più che il popolo eletto da quelle degli egiziani, lei continuava a officiare le funzioni che le competevano tenendo il tablet per le ordinazioni in una mano, nell’altra il vassoio Kaleido a vetri colorati – sul quale un Elephant Corkscrew rubino (il cavatappi a forma di piccolo pachiderma immaginato da Kikkeland) elevava un potente barrito: vibrante protesta per il pezzo di sughero che era rimasto infilato su per la coda a riccio.
«Fat cùl! Come here, burdela, che te lo copra me!» aggiunse Tim con maggiore vivacità, cercando di richiamare l'attenzione dell'inserviente, quasi che quel fondoschiena, tatuato con il disegno di due stelle cadenti, una per ciascuna natica, che gli short lasciavano intravedere, avesse il potere taumaturgico degli antichi re carolingi, il cui tocco era sufficiente a guarire gli infermi da ogni male. Come l’oracolo di Delfi, o la Pizia cumana, la ragazza colse l'invocazione, ma non rispose a parole. Da buona sacerdotessa, sia pure di provincia, si limitò a un semplice, eracliteo, cenno di risposta: un dito alzato verso il Cielo. Quello medio, per la precisione. Tim si accasciò sulla sedia, definitivamente abbattuto, tenendo fisso lo sguardo sull'oggetto del desiderio, almeno fintanto che rimase in vista.
Il Maestro lo osservò. Spenta la scintilla della concupiscenza con l’eclissarsi della vestale, in verità non troppo vestita, fra la folla di entusiasti adoratori della dea vodka, gli occhietti infossati del Custode trasmettevano lo smarrimento di due creature degli abissi trascinate alla superficie da una rete impenetrabile: quella delle rughe che dall’ampia fronte di Tim si gettava sulle guance, s’impigliava nel naso camuso e si distendeva lungo il collo rinsecchito. Ma la repulsione che l’uomo suscitava – nei bambini toccava vette di puro orrore – non scaturiva tanto dalla bruttezza in sé; piuttosto, da qualcosa d’inumano, se non addirittura anti-umano, radicato nelle profondità dell’essere. Nanny era marchiato dall’apparenza di vita in ciò che è già morto – quanto di più ripugnante ci sia in tutto quello che provoca ribrezzo, disgusto e nausea.
Fra i bambini dell’Asilo circolava una leggenda: Tim era il risultato di un esperimento d’ingegneria genetica. Si narrava che, nonostante fosse stato selezionato il DNA di membra proporzionate e belle, il risultato era stato orribile. La pelle, divenuta gialla, sottile e semi trasparente con l’avanzare dell’età, lasciava intravedere il movimento di muscoli e arterie; le pupille, più nere del carbon fossile, contrastavano sgradevolmente con la bianchezza dei lunghi ma radi capelli, che era solito raccogliere, unti, in una coda di cavallo, e dei denti, che le labbra sottili e bluastre lasciavano scoperti fino alle gengive. L’andatura incerta dovuta all’arto in titanio con cui il vecchio chirurgo della pineta gli aveva sostituito la porzione di carne, ossa e muscoli dal ginocchio al piede sinistro – andata in putrefazione, qualche settimana prima, insieme al braccio destro, anch’esso sostituito con un organo artificiale dotato di lacci neuronali in grado di tradurre in azione gli input ricevuti dal cervello – conferiva il tocco finale all’aspetto transumano di Tim. Con quelle giunture metalliche si aggirava per Ariminum con le movenze di un aracnide alieno sopravvissuto alla Guerra dei mondi di Wells. I bambini ne avevano subito approfittato per affibbiargli un nomignolo aggiuntivo: Spiderman.
«Problemi con le nuove protesi?» chiese il Maestro.
«No, no, l’è che…». Nanny, irrequieto, si agitò sulla sedia ebenina Naomi, con le gambe appena arcuate e dalla schiena sinuosa, in cima alla quale gli occhi spalancati di due fori guardavano con ripugnanza gli alcolizzati che stipavano il locale. Esseri sfuggiti all’attenzione di Dio, che nella sua infinita saggezza li aveva cionondimeno persi di vista.
«Calmati. Parla pure liberamente. Sai che con me puoi dire ciò che vuoi senza problemi o censure. Che cosa provi, con esattezza?».
«Yes, I know, I know…dònc…». Il Custode girava intorno all’argomento come Orlando attorno al Palazzo di Atlante, tenendo lo sguardo a terra e indirizzandolo fra la selva di gambe davanti a lui nella speranza di rivedere apparire, a destra o a sinistra, quelle della ragazza; per alzarlo all’improvviso, pensando di udirne la voce divina, o di tornare a vedere le stelle impresse sulle chiappe del suo culo a mandolino.
«Forza, la prima cosa che ti viene in mente».
«Mmm… Furtùr, eccola, perdita di appetito, alternata a loveria… cam dit voialter…». Tim sembrò smarrirsi. Prese Donald Suck e se lo fece passare più volte da una mano all’altra. Cominciò poi a lanciarlo oltre la sponda del tavolo, facendolo svanire in quella tomba senza fondo; poi, tirandolo a sé con una catenella legata al collo dell’uccello meccanico, faceva ricomparire l’oggetto. La resurrezione era accompagnata da espressioni di appagamento e felicità da parte di Tim.
«Fame vorace?» lo richiamò il Maestro.
Tim sollevò la testa verso di lui, ma per un attimo parve non conoscerlo. Dette la sensazione di avere rimosso l’esistenza. Non solo quella del Maestro: anche della Vita, dell’Universo e di tutto quanto.
«Fame vorace?» ripetè il Maestro.
Un lampo nei torbidi occhietti grigi gli fece capire che Nanny aveva recuperato dagli archivi della memoria il file relativo alla dimensione spaziotemporale in cui si trovavano.
«Eccola, sì, ma poi vien su il vomit, con la nausea e non respiro... In più rampazna, tosse, incisio tergi, disturbi nell’uregia e intlè l’oci, sembra che me li prendano a martellate, gli oci, e ancora arciglida…».
«Come?». Tim aveva progressivamente abbassato la voce e sembrava sul punto di disconnettersi ancora una volta. La richiesta del Maestro, formulata ad alta voce, lo riscosse.
«Arciglida, magrezza… pallore, memory loss, arbuff, attacchi di rabbia, madness, cagarela, accessus febris e pensieri sudici… suicidi, volevo dire». Anche i lapsus. Il quadro psicopatologico di Tim era a dir poco preoccupante.
«Male, fratello. Cosa mi dici della presenza di sangue nelle urine, emicranie ricorrenti, disfunzioni della ghiandola pineale, blocco del quinto chakra al centro della gola, declino del potere intellettuale, mancanza di libido, epilessia, idiozia, paralisi, brufoli e attacchi di gotta?».
«Exactly, all these things, propria insè». Tim riprese in mano il Donald Suck con l’espressione stupita di chi si stesse chiedendo cosa diavolo fosse quell’affare.
«Mette giù quel coso». Il Custode obbedì con una certa riluttanza.
«Con la vista andiamo bene?».
«I’m becoming zigh. Sto diventando cieco». Riprese l’uccello meccanico e lo avvicinò agli occhi come un miope che cercasse di mettere a fuoco un oggetto troppo fuori dalla propria portata visiva. «È grave, secondo te?».
L’interlocutore non rispose. Stava ponderando la risposta da dare. Da un lato avrebbe voluto aiutare il Custode. Non sarebbe stato difficile produrre una diagnosi del suo male, le cui cause gli apparivano evidenti. Tutti i sintomi portavano a individuare nello sfrenato autoerotismo cui si dedicava notoriamente Nanny l’origine delle sofferenze e dei patimenti che aveva elencato. Dall’altro, sapeva che gli uomini, e Tim in particolare, sono ingrati, volubili, pronti ad abbandonarti nelle difficoltà e a tradirti per cupidigia di guadagno; e mentre fai loro del bene, sono tutti tuoi, sono pronti a offrirti il sangue, i beni, la vita, ma solo fino quando il reale bisogno è lontano; mentre, quando l'effettiva necessità ti si appressa, si rivoltano come cani rabbiosi. E la rabbia è tanto maggiore, quanto più grande è stato il beneficio che gli avevi portato.
Perciò il Maestro scrutava il Custode sostando in un silenzio che a Nanny parve inquietante, metafisico – mistico, quasi. L’imponente figura dell’amico aveva assunto un’imponenza sacrale, ma con un che di sinistro, proibito, impuro. Fu allora che Tim ebbe una visione (non la prima, né l'ultima, di quella notte), simile alla teofania sperimentata da Zarathustra sulle rive del fiume limaccioso che attraversa l’impervia regione asiatica dell’Alto-Hoxus: il Maestro si trasfigurò nella versione ariminense dell’Arcangelo Bahman (1).
Gli apparve investito da una cascata di luce, che sgorgava dalla lampada Jeeves Innermost, sospesa proprio sulla sua testa, disegnata da Jake Phipps a forma di cappello derby, a bombetta, emblema del gentleman reso immortale non da Dio, ma da Wodehouse.
Che, rispetto al Collega, ha senza dubbio un migliore senso dell’umorismo.
1. Generato dalla Trinità del Var, al cui centro la divinità suprema, Ahura Mazda, “celebra liturgie in onore della Sovrana delle Sirene Alate, della Regina Tatuata, dello Spirito Femminile dei Cieli”, secondo il più grande filosofo platonico di tutta la Persia, Sohravard.