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Narrativa

Il giovane con la pistola

Pubblicato il 13/10/2017

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Il terrorismo l'abbiamo già vissuto: faceva paura anche allora: mancavano le parole.


Milano 1979. Scuola Elementare Dal Verme.

Quasi oscurò la cattedra e la lavagna e disse: "Bambini voglio che mi ascoltiate bene..."
Poi riprese Cinzia Leone che, minuta, con la testa fantasiosa di ricci e di rami, fissò la maestra Perego con occhi enormi di foca, supplichevoli, poi quieti.
La maestra era un donnone bianco col viso quadrato da contadina bergamasca. Vestiva uno stentoreo grembiale nero, uguale per un anno intero.
«Aprite le orecchie, è importante» riprese. «Quando vedete una persona per strada che ha il volto coperto, cosa fate?»
«Ce ne andiamo maestra».
«Dovete allontanarvi immediatamente! Può anche avere una pistola».
Una pistola. Assorbiamo il colpo. «Potete essere coinvolti in una sparatoria». Pausa. «Succede che nelle sparatorie ci vadano di mezzo anche persone che non c'entrano... non andate mai in giro da soli. E dite ai vostri genitori di stare in guardia, sempre...»
Metello, col colletto bianco perfettamente inamidato, alzò la mano e disse: «Mia madre, quando deve comprare qualcosa...»
Ma io, basta, avevo finito d'ascoltare.
Ben al di là della mia volontà, le parole della Perego avevano innescato un'allucinazione che, in seguito, mi tenne avvinto per giorni.
Mancava, allora, la scrittura, ma le tavolette della mente erano duttili. L'ouverture del sogno ad occhi aperti suonava in Piazza Fidia, quartiere Isola. Dalla parte del calzolaio. Ecco. Ora che so di scrittura, posso dire che il sogno iniziava con un vigile, o un poliziotto, che si avvicinava da tergo a un ragazzo con il volto coperto da una sciarpa a scacchi.
Gli diceva, per farsi obbedire: "Prego! Favorisca la carta di identità!"
Lui biascicava un: "Lascia stare ti conviene" senza virgole né punti "sei un lavoratore anch'io sono un lavoratore quindi lascia stare e fai finta che non mi hai neanche visto".
Ma il poliziotto non aveva nessuna intenzione di mollare la presa, e anzi, faceva per stringere con la mano l'avambraccio del giovane - che intanto gli aveva voltato le spalle e strattonava via. La battuta del ghisa, o del pulotto, era: "Uè ti. Ma dove vuoi andare, lanàtt? Ven chi". Facevo dire all'uomo lanàtt, perché me lo diceva mia nonna. Capellone.

Il ragazzo scappava, seguendo le rotaie del tram: imboccava via Ugo Bassi, bordeggiando il Palazzo della Regione, dove lavorava mia madre. Il Quattro si fermava alla fermata e non ripartiva. Il poliziotto correva dietro al giovane uomo, forse chiedendo rinforzi, oppure gridando: "Ferma" o anche: "Fermatelo". Poco più in là il ponte di via Farini. Da una parte i pinnacoli del Cimitero Monumentale, dall'altra la Stazione Garibaldi.
Il ragazzo - appesantito da un loden color cammello - era infinitamente più veloce del suo inseguitore, ma al centro del ponte si fermava. Potevo osservarlo, quasi con calma. Aveva una carnagione bianchissima, come se fosse rimasto chiuso in una stanza con gli scuri abbassati per una vita. E una cortina di capelli sporchi gli scendeva sugli occhi e lui li soffiava via. Allargava le braccia al cielo. Poi metteva mano alla pistola che teneva nella tasca, e si voltava, impugnandola con due mani, come Giuseppe Memeo nel 1977. A quel punto, dal dosso compariva il poliziotto. Era un trippone. Si fermava a corto di fiato. Diceva, fuori campo, mentre lo spettatore aveva il tempo di studiare il primo piano, teso e determinato, del ragazzo: «Non fare boiate». Cercava di slacciare la fondina della sua, di arma.

Spunto io, alle spalle del poliziotto. Inforco, alto sul sellino, una bella bicicletta rossa, con lo zainetto sulle spalle; devo raggiungere a piedi il Parco Sempione, per la partita. Mentre il giovane punta decisamente la calibro 22 contro il poliziotto. Che è al limite delle energie; non ha più interesse a sfidare il giovane; è a lui per primo che si scolla la maschera della contrapposizione vita mea mors tua. Non pensa che il giovane con la pistola possa considerarlo un bersaglio; è inerme, un simbolo di niente. Non toglierà l'arma d'ordinanza dalla guaina, allontana con evidenza la mano. L'altro non deve sentirsi minacciato.
«Guarda» dice. «Per me non ti minaccio. Non tiro fuori neanche la pistola, a questo punto. Non ho mica intenzione di fare a chi tira prima. Non so se hai letto La signora delle camelie del Dumas» dice. «A un certo punto un becchino che si occupa della tomba della Marguerite Gautier, dice: 'Quando mi arriva una ragazza di vent'anni, penso a mia figlia, e francamente mi commuovo'. Se vuoi saperlo, ho due figli piccoli, uno ha otto anni e uno sei. Due maschi. Diventeranno come te, non so neanch'io. Non so se l'educazione che gli dò, l'ambiente, mia moglie, i parenti di mia moglie e miei, se tutti questi influssi avranno un qualche effetto su di loro. Se il più piccolo crescerà come il più grande, o in modo diverso. Una cosa che non so. Però voglio vederla capito, con i miei occhi».

Freno e metto giù i piedi e la canna mi separa i testicoli.
Più semplice sarebbe osservare tutto come da una finestra.
Una remota possibilità mi vede coinvolto nel conflitto a fuoco. Remota perché questi giorni di fine infanzia hanno un'interezza solare assoluta.
A una partita di prato, di alberi e di incerti confini seguirà un'altra partita e un'altra ancora - fino a perdere la precisa nozione di chi vince e di chi perde e di chi, propriamente, si è.
Il poliziotto ha parlato bene, mi sembra. Obbligato dalle circostanze, non ha perso la testa, e tuttavia è il pallore del giovane, ancora, che mi attrae: i suoi pensieri. Ha elaborato la dimensione di questo momento che lo separa da tutta l'inutile dispersione del tempo passato. Ora è pronto all'Atto, vicinissimo al punto di non ritorno.

Grida: «Bastardi porci servi toccherà che vi vada di traverso il pane della sottomissione! Siete nati per non chiedere niente per non desiderare niente... i tuoi figli! mi parli dei tuoi figli! che miele succhieranno dal favo della tua pavidità? Non ci ribelliamo, per ora, alle forze che ci stritolano. Non ci interessa capovolgere il piatto del capitalismo, l'asfittico capitalismo italiano, il nostro obiettivo, oggi, è svellere la pavidità!» Pausa. «Non è la vostra generazione che per due piatti di lenticchie ha venduto la storia e la lotta dei comunisti, la generosità mostruosa dei partigiani? I nostri padri. Ah. Pensano di averci donato il paradiso quando ci hanno offerto il conforto di un immobile salotto borghese. Non capiscono che odiamo la pendola incapace di incidere i momenti ognuno con il suo colore. E per farci dono di questa soffocante merda borghese hanno abbassato il collo fino al suolo, o fino al cappio, hanno accettato i compromessi più degradanti, hanno tradito le radici, sradicandole giorno dopo giorno, sputando con troppa convinzione sulla loro propria rabbia di oppressi. Perché la verità era che erano divenuti al tempo stesso oppressi e oppressori: sempre pronti a far sentire sulla schiena dei più deboli la sferza che aveva disegnato il dedalo delle loro ferite. Non fanno altro che cercare di equilibrare l'infamia della loro pavidità. Ascoltami bene ora».

«Non sono io che impugno quest'arma, non ho io il potere di istruire un risibile processo contro di te - la necessità storica impugna contro di te lo strumento della più pura paura: quella della morte. Che io sia solo, qui, ora, è solo un caso fra i tanti. Questa sì è un'occasione fortuita. Lascia che ti spieghi il gioco in cui siamo coinvolti».

So che vorrebbe continuare a parlare, e sviscerare i motivi e il senso. Si chiede se non sia meglio un documento impersonale, oggettivo, analitico... Ma ora deve tracciare un confine tra sé e i suoi compagni. La separazione tra ciò che, interiormente, lo muove e lo infiamma, e le contraddizioni, inevitabili, urgenti del mondo là fuori, questa separazione è un artificio borghese. Non c'è un uomo, pensa, che non cerchi la realizzazione, la liberazione dal servaggio capitalistico, utilitaristico, e al contempo un boccio di felicità.

Appoggio la bicicletta contro la ringhiera verde, ch'è già parzialmente corrosa dall'aria viziata dei tubi di scappamento. Il cartello con il teschio dell'alta tensione mi ha instillato da tempo l'idea che possa esistere una fine violenta, insensata. Dalla mia posizione mediana posso cogliere l'attimo in cui il giovane con la pistola si accorge della speranza negli occhi del poliziotto - la speranza che lo vengano a salvare. Non ha scelto. entrando nella Polizia, di non restare solo? E dunque non può morire abbandonato.

Quando arriva il gruppo anonimo è finita, davvero, pensa il giovane.
Il confronto tra l'uomo e l'uomo viene distrutto.
La Verità è fragile, se ne ha continuamente la riprova.
Non fatevi ingannare dalle manifestazioni della Verità. Non pensate che duri o addirittura che s'installi, si metta a reggere la falsità del cosmo e del mondo sociale.
Non sarà il «suo» poliziotto a farlo saltare ma una qualche maschera anonima, un qualche travet, un esperto dell'abbassare la leva e dell'alzare la leva, un ragioniere nazista inconsapevole della carne del sangue e della sua identità.

«Forza vattene, vattene! Fila via» dice il poliziotto. «Non è mica complicato. Mi toglierò la divisa e anche tu te la toglierai e ci berremo un caffè insieme. Mi volto, se vuoi. Il tempo passa, e tu imparerai nuove cose e anch'io. E anche i nemici invecchiano e cambiano pelle come serpenti. E intanto facciamo patti e sottoscriviamo contratti. Ci sono tempi in cui sentirsi perfettamente felici e altri invece...»
«Non farli avvicinare!» grida con tutto il fiato che ha in gola il giovane con la pistola.
Mai in vita sua ha sentito in maniera così potente la Presa. (A un certo punto ha davanti agli occhi la decalcomania di una farfalla notturna sulle piastrelle screziate beige del bagno).

Incapace di separare ragioni e sentimenti, non voglio un finale tragico, né un finale di resa, che sento vagamente irreale.
Riprendo la bici e salgo sul sellino. Chiedo al giovane: «Sei bravo in porta?» Dico anche: «Pazzesco, al momento la cosa che mi fa più paura è di non essere scelto fra i primi quando si formano le squadre. Non so» mi rivolgo al giovane, voglio che mi ascolti, «magari ti sei sempre sentito abile, e non hai mai provato il disagio, il timore, di essere accantonato e da lì, nell'angolo, venir dimenticato. Comunque, anche se siamo in numeri pari, troviamo il modo di farti giocare lo stesso. Basta che mi rispondi».

«Forza» grida il giovane al poliziotto come se non mi avesse sentito. «Di' loro di non avvicinarsi se non vogliono una carneficina. Di' loro che non sia tutto e subito - che la lepre ancora scapperà sopra le balze e che l'appostamento del lupo...»
Il grande sbuffo della polvere da sparo tolse alle parole sangue e innervamento - condannato dal troncamento, il fiore della lingua si piegò verso la terra morto e dall'altra si sentì costretto a tornare perché la frase potesse, nella vita, e nella pace completarsi, oppure troncarsi di nuovo e sfiorire nella terra.
Diedi la schiena all'evento, per non vedere, quello era il finale, dunque. Ma presto o tardi avrei dovuto aprire di nuovo gli occhi e voltarmi.

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di Enrico Ernst

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