Il secchio col pastone di granoturco, farina e acqua stava nel mezzo della stalla, a terra sul terreno umido. Col muso quasi nascosto al suo interno masticava rumorosamente il grasso maiale, le cui orecchie pelose uscivano oltre il bordo e parevano fremere dalla gioia.
Sul fondo della stalla c’era un soppalco per le galline, dove si ritiravano per la notte, una specie di impalcatura di legno.
L’uomo trattendo quasi il fiato, s’era avvicinato zitto zitto, passo dopo passo, alla bestia ignara.Teneva, alta sopra il capo, una pesante mazza dal lungo manico. Il momento era quello giusto: un colpo secco sul cranio ed era fatta. Quasi immaginava le saporite salsicce e le costine alla brace e, soprattutto, i prosciutti, i prosciutti profumati… ma non doveva farsi distrarre. Cacciò le fantasie e si concentrò sulla prossima azione.
Calò con forza la mazza, ma non verticalmente, un po’ angolata.
Come ben sa chi ha dovuto maneggiare questi oggetti dal lungo manico di legno, non è così facile centrare proprio ciò che si vuol colpire: sia un grosso spuntone di ferro o vuoi una pietra da spaccare. È comunque più prudente, in ogni caso, che l’eventuale aiutante stia ben lontano, soprattutto con le mani.
Fu così, infatti, che la testa di ferro della mazza, dopo aver descritto un perfetto arco di cerchio, terminò la sua corsa al centro del secchio. Il quale schizzò da terra a una velocità impressionante, volando per la stalla come un proiettile.
L’uomo imprecò contro tutti i santi del paradiso e anche contro qualche buona donna che conosceva da tempo.
Per non dire dello stato d’animo del povero maiale che s’era visto improvvisamente sparire da sotto il grugno quella bontà, così rara in quella casa. Non solo: un fracasso infernale l’aveva rintronato, il rumore di ferro contro ferro, quasi assordante. E ora era terrorizzato.
Con un grugnito poco fine, girò la testa, guardando con odio l’uomo. Ma la paura prevalse sulla rabbia e corse veloce a rintanarsi sotto l’impalcatura delle galline.
“Ah, brutta bestia, ora ti arrangio io!” diceva quello fremente di vergogna, più ancora che di rabbia.
Gli corse dietro. Ecco: era lì, la testa sembrava invitarlo alla prossima mossa, mentre quegli occhietti maligni lo fissavano con scherno.
L’uomo tornò ad alzare la mazza e poi… giù, stavolta con un movimento perfettamente verticale. Doveva crepare, quella bestiaccia.
Evidentemente era obnubilato dall’ira. Ora, che sarebbe stato corretto sferrare un colpo inclinato, la mazza scendeva diritta, incurante. Incurante di cosa? Del soppalco per le galline, ovviamente. Il colpo, sferrato con tutta la violenza di cui era capace, fracassò il ripiano e schegge di legno volarono per ogni dove; assieme a due o tre galline che stavano sonnecchiando godendosi la frescura dell’ombra della stalla.
Così fu che il maiale, giornata decisamente movimentata, scappò rumorosamente anche da quell’angolo e uscì nell’aia, alla luce del sole, con la pellaccia ancora intatta.
Quando suo padre gli raccontava questa grottesca avventura del nonno, non riusciva – lui, così piccolo – a trattenersi dalle risate.
Anche il papà rideva a crepapelle e raccontava la storiella a ogni occasione, soprattutto a pranzo, quando c’erano degli ospiti e veniva servito lo stinco bollito.
Crescendo gli capitò più volte di raccontarla lui stesso; ma, ogni volta, sentiva una specie di retrogusto amaro in bocca.
Perché mai? Forse perché il maiale se la cavava sempre, ingrassava e viveva felice, mentre il nonno, poveraccio, lo nutriva, lo sfamava, diceva soddisfatto ‘guarda che bel maiale!’; e quello lo guardava con i suoi occhi – sì, porcini! – e sembrava molto soddisfatto di sé, sembrava quasi ridere. Prima di essere scannato, prima che diventasse una salsiccia, ci voleva ancora tempo, un sacco di tempo.