Sul lungomare di Ariminum, nei pressi della Rossa Fortezza Bastiani, il Roc fissava l’azzurrità dell’orizzonte. Assunta la posizione totemica – eretto in tutti i suoi trenta centimetri di statura, la testa alta, le ali spiegate – l’uccello albino dal volto antropomorfo stava impegnando ogni risorsa psicofisica disponibile nello sforzo di emergere dalle vaste e insidiose paludi della memoria in cui era sprofondato.
Cosa ci faceva lì, in quel limite interstiziale fra Essere e Nulla, Luce e Ombra, Terra e Oceano? Si sentiva scombussolato e tuttavia in un habitat confortevole, vicino al centro spirituale del Cosmo. Questo era buono. Le zampe erano ben piantate al suolo? Abbassò il capo, lentamente. Gli artigli erano affondati nella sabbia. Macchie biancastre dall’odore sgradevole erano raggrumate nei pressi. Era roba sua? Forse sì. O forse no. Aveva avuto un compagno, un amico o un fratello (gemello? Omozigote, eterozigote?), che però non era con lui. Quei sedimenti potevano essere i suoi resti mortali. Improbabile. Piuttosto, sembravano scivolare da un orologio molle lì vicino. Cosa significava tutto ciò? Che stava evacuando brandelli di pensiero, se non anche altro. E che la sua mente procedeva su sentieri che si biforcavano e che si intrecciavano nello spazio e nel Tempo in infinite diramazioni, nessuna delle quali però conduceva dove avrebbe voluto. Cioè dove? Non lo ricordava più.
Tornò al quesito iniziale. Cosa ci faceva lì?
Chiuse gli occhi. Si concentrò per focalizzare le fluttuazioni dello spirito su immagini che gli fornissero qualche indizio utile. Si materializzò la sagoma di uno specchio. Lo attraversò e venne catapultato a testa in giù in un Paese meraviglioso. Riconobbe il suo luogo natio. Remotissimo, tanto lontano da non essere neppure regolato dalle leggi della geometria euclidea. Un mondo cristallino, simmetrico, armonico, fatto di stelle e di conchiglie, di icosaedri e di frattali, di cubi neckeriani e nastri di Moebius, di trasformazioni individuali e di metamorfosi collettive riflesse in superfici concave e convesse, di giorni in negativo e di notti in positivo, di bianchi e di neri, con qualche bagliore rossastro o verderame qua e là: tanto perfetto da togliere il fiato.
Quel posto era abitato da due generi di persone: uomini con la testa d’uccello e uccelli con la testa da uomo. Entrambi volavano: a volte con il corpo, altre con il pensiero. A volte in sogno, altre durante la veglia. Ma non sapevano quando si alzavano da terra fisicamente o mentalmente, da svegli o mentre dormivano. Non avvertivano la differenza, né sentivano l’esigenza di avvertirla. Il reale era irreale, l’irreale era vero, e tutto era buono.
Quando si libravano in aria diventavano pesci; si buttavano allora in mare, dove tornavano uccelli. Perché l’acqua scorreva in salita, su fino al Cielo, cioè sottoterra. In quel Cielo abissale le carpe nuotavano fra le nuvole in pozze dove galleggiavano foglie di alberi fra cui nuotavano le carpe. Pozzanghere e nuvole si compenetravano nella migliore delle armonie possibili. E anche di quelle impossibili.
Tutto era buono, in quel luogo remotissimo, tutto era in ordine; ma successe qualcosa, di cattivo, e quell’ordine venne sconvolto. Gli uomini-uccello morivano uno a uno – corporalmente, spiritualmente: chi poteva dirlo? Nessuno sapeva che differenza ci fosse. Lui allora aveva deciso di partire. Alla ricerca di una nuova Verità: di una nuova forma di Bellezza, che avrebbe portato in dono agli uomini-uccello, agli uccelli umani, facendoli risorgere dalla morte.
Aveva fatto un viaggio. Un lungo viaggio. Aveva superato sette montagne. O sette mari. In sette giorni. O in sette anni. Non era sicuro neanche di questo. Rammentava però con ragionevole certezza la sosta presso sette pub di una città invernale. Ariminum.
Era affiorata da un groviglio di linee astratte e figure geometriche contigue, che si rivelavano essere colline, torri, campi arati, cascine, mano a mano che si avvicinava. Una grande casa di campagna gli si era parata davanti di colpo, proprio mentre si era lasciato andare a un volo radente: sullo slancio, aveva infilato la porta d’ingresso, si era alzato un poco quasi schiantandosi contro volte e travi, si era abbassato rischiando di bruciare le penne fra focolari e fornelli, finché era uscito da una finestra aperta impigliandosi in lenzuoli sospesi su stenditoi di legno. Liberatosi a fatica, era fuggito inseguito dalle imprecazioni di una vecchia megera che parevano le maledizioni di una strega, ma erano insulti in dialetto romagnolo. Riprese quota e tornò a volare a circa mille piedi di altezza; la città allora gli si presentò con le fattezze di un gigante mitologico.
L’ombelico era una piazza, circondata da portici silenziosi e negozietti abbandonati; di contorno, il grande ventre urbano con la Chiesa, il Cinema, il Municipio, l'Ospedale psichiatrico - buen retiro di derelitti, subnormali, mongoloidi dalla testa grossa, le orbite vuote, la bocca piena di bava.
Ma non mancavano pure le Piadicene Safe Zones, isole dalla forma vagamente circolare del tradizionale piatto ariminense, dove potersi fermare, sedersi e magari consumare una vodka d’asporto a distanza di sicurezza fra le sette e le nove di sera; le panchine in materiale igienizzabile, popolate di storpi, minorati, maggiorate, poveri di spirito e ricchi sfaccendati con il volto coperto da mascherine fashion; le enormi giare di pietra nera su basi marmoree recanti l’iscrizione in dialetto “Pleasure-seekers alienam miratur tabem”, ossia “Ai gaudenti, la malattia sembra lontana”, proprio come accadeva ai fiori con cui ogni giorno quelle urne venivano riempite: belli ma recisi, che stavano per morire.
C'erano poi i ristorantini tipici nel Quartiere delle Prigioni: serre, o celle, trasparenti, dove mangiare in due mentre il cameriere-robot serviva le portate attraverso una lunga tavoletta, in modo da non avvicinarsi troppo (i possibili danni provocati dai virus umani sui delicati cervelli positronici degli androidi erano ancora oggetto di accaniti dibattiti televisivi).
Da qui, in direzione nord, si dipartiva un viale sottile ed elegante, disegnato da Modigliani. Conduceva al volto di una seconda piazza, dominata dal Castello malatestiano e dalla Camera di Commercio; non lontano, più sotto, le fauci della stazione ferroviaria, enigmatico accesso alla Vita, l’Universo e tutto quanto, con le colonne affilate e i muri robusti in travertino bianco, inghiottivano file di carrozze nere come le fiancate della nave degli Argonauti, al seguito di fumanti locomotori che avevano corso sulla strada ferrata parallela alla costa, segnata a intervalli regolari da antiche torri saracene, sotto il Sole implacabile del tardo pomeriggio – anche se l’orologio sul frontone dell’ingresso, dirimpetto alla fontana trapezoidale con il contorno rastremato, segnava perennemente le due e ventisette. Del resto, la stazione è, alla lettera, il luogo in cui le cose stazionano. È la sala d’attesa del Tempo. Il posto in cui il Frecciarossa diventa la Freccia di Zenone – di fatto immobile. Che fosse questa la ragione per cui i tabelloni luminosi degli arrivi e delle partenze non riportavano nessun orario e come unica destinazione offrivano la seguente indicazione: “Tòt praeter one praeclusae”, che voleva dire: “Tutte precluse, tranne una”? La app Ariminum by trail non offriva ulteriori delucidazioni, al netto di un lungo commento che poneva l’accento sull’importanza delle scelte individuali. In olandese.
Scendendo per il tunnel dell'immaginario esofago, il Roc attraversò le viscere buie della città, il Mercato delle Poveracce, passò sotto all’Arco di Trionfo e sbucò fra i genitali di quel colosso ermafrodito: la Barafonda, con il Teatro di varietà e il bordello, evanescenti ed ingannevoli giochi di ombre fra le brezze salate e le nebbie del Rubicone assopito – dormiente come la trentina di creature fra i tre e i dieci anni che vivevano in un caseggiato costruito là dove sfociava il fiume, l’Asilo d’Infanzia Kandiskij.
Il Roc aveva compiuto lunghi volteggi intorno e sopra quell’edificio, con picchiate, cabrate e ancora discese per effettuare giri di ricognizione a bassa quota. Era stato attratto dalle comunicazioni telepatiche fra i piccoli, dagli sguardi che si scambiavano negli incontri per le scale o sui pianerottoli, quando stavano dietro una porta o dentro una culla o erano tenuti per mano come mazzi di insalata dal Custode o dal Maestro; dal loro sussurrare la formula Asa Nisi Masa – traduzione della parola "anima" in alfabeto serpentino, per cui a ogni sillaba viene aggiunta una s e ne viene ripetuta la vocale: a (sa) ni (si) ma (sa) – per far muovere gli occhi di un quadro o attirare un vaso senza toccarlo; dalle risate prima di andare a letto, prologo di un ininterrotto brusio notturno; insomma, dalla vita segreta dei bambini di quel palazzone, con storie di amori totali, di odi, di infelicità, sempre per le scale, i ballatoi, il piccolo parco giochi sul davanti, proprio sulla sabbia.
L’arenile, infine, bordato, a Est, dalla striscia verde e continua della pineta, oasi di pace, punteggiata da banderuole segnavento con la scritta "Officium meum stably agitari", “Il mio compito è essere stabilmente agitata”, che in molti ritenevano alludesse al carattere incostante degli ariminensi (o almeno delle loro gentili signore); alle spalle del boschetto cominciavano a salire le colline, che raggiungevano il loro apice nel Cliff, innervato da viottoli stretti e insidiosi fino alla vetta presidiata da Catholikà, antico borgo bizantino a picco sulle acque limpide della Romagna, sul tratto terminale della Gola del Kraken (mostro che, secondo la leggenda, divorava le barche dei pescatori).
Sul versante occidentale, piscine artificiali erano divise da boe, che segnalavano anche il limite di balneazione, oltre cui si distendeva liberamente l'Adriatico. Cartelli disposti a intervalli regolari sulla battigia ammonivano: “Ne poorly in vada inpactus you die”. La traduzione dal dialetto suonava così: “Perché tu non muoia miseramente in fondali bassi all’urto". Cioè: "Per non farti affogare in un bicchiere d’acqua”.
Dopo che l’Aurora, ancora scarmigliata, aveva schiuso le porte della camera nuziale per consentire al Sole sfibrato dalle prove notturne di uscire a prendere aria, fra gli ombrelloni ben distanziati gli uni dagli altri dei Bagni in attesa del primo turno di vacanzieri si insinuavano bande di ragazzini eccitati. Strisciavano fino all’area degli spogliatoi per non farsi individuare dalle telecamere di sorveglianza, commandos di Rambo naneschi con un obiettivo preciso: contemplare, attraverso le tavole sconnesse delle cabine mobili, donne prosperose spogliarsi sognando concorsi di bellezza, defilé, pubblicità, fotoromanzi e profili Instagram con milioni di followers. Più avanti – accessibili a molti, ma non a tutti, anzi solo ai pochissimi che conoscevano la Via per arrivarci – si estendevano gli anfratti misteriosi della Spiaggia Iperurania, dove, si diceva, si nascondevano gli Artisti Dannati.
Di sera, il litorale si riempiva dei passi della gente diretta al porto, per assistere alla partenza dell'Asso di Cuori, mitico transatlantico rutilante di luci fantasmagoriche. Era destinato alle dimore ultraterrene del jet set internazionale – affascinante e irraggiungibile – che aveva trascorso qualche giorno di villeggiatura nelle quarantadue stanze esclusive del Grand Hotel, tutte arredate con autentici pezzi francesi e veneziani del diciottesimo secolo, al riparo della facciata in stile liberty dipinta di un rosa disneyano. Sparita la nave fra gli astri tetraedici di uno Zodiaco ottangulo, calata ormai la notte, il molo – la Palata – si svuotava, lasciando il campo a Scureza, il motociclista che sfrecciava avanti e indietro fino all’alba rombando e peteggiando (non era semplice distinguere fra i due rumori).
A ogni passaggio del viandante motorizzato, dalle toilette all’aperto rispondeva un cane alla catena, indifferente ai cartelli (dagli indigeni chissà perchè chiamati "Bisacàn", ranocchi) che ammonivano: "Silence omni pladùr maius", ossia "Il silenzio è per ciascuno più dello strepito" (alcuni filologi di scuola olandese preferivano l'interpretazione: "Fatti assordare dal silenzio!"). Con l’affannoso abbaio l’animale testimoniava la sua presenza solitaria, eccezion fatta per la Luna, che indugiava nel campo di beach volley, di lato, come se si stesse apprestando alla battuta. Scoccava infine un raggio obliquo... Dalla via maestra s’udiva un suv, che stritolando i cubetti di porfido mandava un ringhio silenzioso, preceduto dal tintinnio dei cerchi in lega sul pavé.
L’ultima visione del Roc, prima che precipitasse in un comatoso stato di ebbrezza sul litorale, fu un nugolo di volatili intorno a un peschereccio.
Il battello era di un giallo fulvo che si fondeva con quello dell’astro diurno, giunto al culmine del suo percorso circolare. I raggi solari cadevano a perpendicolo come gioielli pendenti dalla mitra del musicale dio Sun Ra. Trapassando gruppi perlacei di nubi, che si rincorrevano nelle stanze vuote del palazzo verde malachite del cielo, improvvisavano un’armonia verticale sul mare – una lastra di calcedonio blu stesa dal porto di Ariminum fino agli antichi approdi della Bitinia.
La barca, al centro della scena, era carica di orate dai riflessi citrini, branzini color platino, grandi behemoth (Jinshin-Uwo, in dialetto, i Pesci dei Terremoti) zebrati come pietre laviche, piccoli elefanti marini d’argento, goldenfish catturati mentre ondeggiavano fra alghe cilestrine, che spiccavano su mucchi di altri pesci di tutte le sfumature del quarzo rosa, violetto e malva – agonizzanti ma ancora palpitanti, sul ponte: uno sfavillante scrigno pieno di segreti, avviluppato nel turbine della danza jazz condotta freneticamente dagli animali alati.
Un quadro evanescente.
E sconcertante.
Perché il Roc era fra loro ma, al tempo stesso, era ognuno di loro.