L’ultima visione del Roc, prima di precipitare in un comatoso stato di ebbrezza sul litorale nei pressi della Rossa Fortezza Bastiani, fu un nugolo di volatili intorno a un peschereccio.
Il battello era di un giallo fulvo che si fondeva con quello dell’astro diurno, giunto al culmine del suo percorso circolare. I raggi solari calavano verticali – gioielli pendenti dalla mitra del musicale dio Sun Ra. Trapassando gruppi perlacei di nubi, che si rincorrevano nelle stanze vuote del palazzo verde malachite del cielo, improvvisavano un’armonia verticale sul mare – una lastra di calcedonio blu stesa dal porto di Ariminum fino agli antichi approdi della Bitinia.
La barca, al centro della scena, era carica di orate dai riflessi citrini, branzini color platino, grandi behemoth (Jinshin-Uwo, in dialetto, i Pesci dei Terremoti) zebrati come pietre laviche, piccoli elefanti marini d’argento, goldenfish catturati mentre ondeggiavano fra alghe turchesi, che spiccavano su mucchi di altri pesci di tutte le sfumature del quarzo rosa, violetto e malva – agonizzanti ma ancora palpitanti, sul ponte: uno sfavillante scrigno pieno di segreti, avviluppato nel turbine della danza jazz condotta freneticamente dagli animali alati.
Un quadro evanescente.
E sconcertante.
Perché il Roc era fra loro ma, al tempo stesso, era ognuno di loro.