Dopo che il Roc si fu ripreso dalla sbronza, lui e il JubJub volarono fino all’edicola della stazione. Era nei pressi della fontana trapezoidale ancora transennata per disposizione dell'Autorità Giudiziaria. Si stavano compiendo gli ultimi rilievi prima di rimuovere i resti di C1P8, il robot addetto alle pulizie. A quanto pareva, si era suicidato affogando in un metro d'acqua la sera prima.
Lì giunti, scorsero i giornali, sorseggiando un vodka gimlet. La cronaca nera aveva la meglio, anche se ogni testata puntava su un fatto eclatante diverso: l’ennesima violenza su un bambino (girava ad Ariminum un maniaco che, dopo avere ucciso la preda minorenne sulla spiaggia, al crepuscolo, le mozzava entrambe le orecchie, lasciandola sul bagnasciuga a dissanguarsi); la sequenza infinita di mariti maltrattati da mogli affette da gravi patologie psichiatriche (“un problema” affermava l’editorialista della prestigiosa Lancetta ariminense, “che affligge l’umanità dai tempi di Socrate, passa per Dostoevskij e Scott Fitzgerald, arriva a John Lennon, Woody Allen, Federico D. Fellini”); il crescente numero di disoccupati inferociti che distruggevano vetrine nelle vie della moda; la cattura di due elefanti, cui la polizia dava la caccia da mesi, in un bosco lungo il Rubicone; l’omicidio-suicidio degli adepti di una setta di schiavi del sesso. Tutti però avevano in prima pagina la foto del commesso pulitore, accompagnata da editoriali pieni di commozione per il povero automa che si era tolto la vita.
«Strano però che nessuno abbia pensato a un roboticidio. Non c’è nulla di più ingannevole di un fatto ovvio». Il Roc, pur proponendosi al mondo con il consueto aspetto – strapazzato e sgualcito come l’impermeabile di Marlowe – sembrava meno sofferente del solito per l’emicrania cronica. Ostentava la lucidità di un Poirot calvo e aveva assunto l’espressione concentrata di Sherlock Holmes.
Il JubJub si mise di buon grado nei panni di Watson:
«Quale sarebbe stato il movente,
di un’azione così potente?» indagò.
«La vendetta? Il Piccolo Ed ha scoperto che C1P8 aveva avuto un alterco con un ubriaco nel parcheggio di un centro commerciale. Il robot aveva fatto arrestare l’uomo. Ancora, mi ha riferito Tim, un altro commesso pulitore ha urtato per errore uno dei Bimbi Perduti scappato dall’Asilo, qualche giorno fa. Non sembrano moventi adeguati per un roboticidio, però... Soprattutto, andrebbe preso in considerazione lo sciopero indetto per protesta dal movimento dei Croppers, gli spazzini neoluddisti».
Il JubJub annuì. Per le vie del centro ancora erano affissi i grandi manifesti raffiguranti una giovane che fronteggiava un umanoide. Gli puntava contro una scopa, sopra un messaggio dai toni epocali: «Combattiamo per il futuro delle nostre comunità!». La donna avrebbe potuto essere una persona qualsiasi. Niente a che fare con le bellissime androidi russe della serie tv Meglio di noi, insomma. Come a dire: oggi la macchina sta prendendo il nostro lavoro, domani toccherà a te.
In Rete invece circolava, virale, una giff animata che rappresentava un paesaggio pastorale giapponese. Al centro della composizione si trovava una ragazza in piedi, intenta a lavorare la lana con i ferri, mentre badava ai suoi animali. Una rivisitazione manga del quadro di Millet Pastorella con il suo gregge. L’animazione si concludeva con lo slogan, scritto in caratteri gotici gocciolanti un rosso sangue: “Gli androidi sognano pecore elettriche!”. I robot, insomma, si sarebbero sostituiti a ogni specie vivente.
«Gli operatori ecologici della città, sostiene il sindacato, devono lavorare per degli “automi” per nulla “autonomi”, dato che occorre allestire l’ambiente in modo che possano aspirare la polvere dai marciapiedi o lavare i pavimenti piastrellati delle zone pedonali: è necessario posizionare barriere e rimuovere ostacoli in cui potrebbero rimanere incastrati. Essendo questa attività invisibile, non è contemplata dai contratti. Gli spazzini si sentono schiavizzati. Che qualcuno abbia scaricato la frustrazione sul robottino?».
«Jay pensa a una storia d’amore finita male.
Il dramma della gelosia e della femmina fatale».
«Potrebbe essere. C1P8 faceva coppia fissa con la Tabaccaia nelle gare di tango. Era stato modificato dai tecnici del Max Planck Institute per fornire abbracci su richiesta, con un programma per staccarsi al momento giusto senza eccedere nella stretta, dosata in base allo stato psicofisico del partner. Non è sorprendente che il loro passo doble, durante il Gran Prix Tanghero di questa estate, sia ancora vivo nella memoria di tutti. Un momento: non lo ballavano sull'aria di quella canzone della tradizione ariminense: Are we human, or are we dancer?».
«E la band, che veniva da fuori,
non si chiamava Gli Uccisori?».
«Sono cose che fanno pensare, ma non credo che sia questa la direzione da seguire. Chi sarebbe in questo caso l’omicida, un robot geloso? No, va eliminato tutto ciò che è impossibile; quel che resta, per quanto improbabile, sarà la Verità».
«Siamo come segugi,
attratti da più d’un’usta:
ma su quale indugi,
qual è la pista giusta?».
«Elementare, Huginn. Vedi, il robot è più uno spione che un pulitore: legge e memorizza targhe, ascolta e registra dialoghi senza chiedere il consenso, fotografa volti e corpi e li trasmette alla polizia. Credo che abbia visto qualcosa che non doveva essere reso pubblico».
«Eppure, la morte a se stesso data
non è un’ipotesi in aria campata.
C’è materiale per una pensata,
tanto da trarne una ballata».
Il JubJub cominciò a improvvisare un rap sull’aria di Rubberband of life di Miles Davis:
«Se sei alto un metro e un cazzo
e pesi più di un quintalone,
assomigli a una supposta
e per vivere fai il guardone,
un elettroshock nell’acqua che ti tosta
può sembrar la soluzione...».
Ragionando sulle diverse ipotesi relative alla morte del robot pulitore, il Roc e il JubJub, alias Muninn e Huginn, erano tornati al litorale, di fronte alla Fortezza Bastiani: dove il mare e la meditazione rinnovano ogni giorno il vincolo nuziale, come soleva ripetere il Capitano.
«Il sogno in cambio di un sogno» aggiungeva il Pescivendolo.
L’edificio sorge su un promontorio che penetra l’Adriatico per diverse centinaia di metri. Contro un cielo verde veronese si stagliano le mura incoronate da ventisette petali di loto in marmo bianco – simboli dei mille che rappresentano il settimo chakra, lo sboccio del quale consente l’Illuminazione. I bastioni del lounge bar, nell’immaginazione del Capitano, «emergono sulla terra come le fiancate del grande veliero, con le vele spiegate tra i flutti che separano le colonne d’Ercole, scelto da Bacone per frontespizio dell’Instauratio magna».
Sulle pareti sono scolpite millequattrocentoquarantadue storie riguardanti il Buddha, un film kolossal che risale all’800 dopo Cristo. Le acque intorno brulicano di grandi mostri marini e piccole creature guizzanti al di sotto delle fluttuanti offerte votive che gli ariminensi affidano al pèlago, dopo avere eretto piccoli stupa di sabbia sulla spiaggia, per ingraziarsi il favore dello Scrollalanza e degli Dei del Mare:
offerte di vodka o assenzio, mescolate con sandalo per pulire la bocca, la faccia e i piedi, purificando la mente;
offerte di lettere d’amore dentro a piccole bottiglie insieme a fiori, a significare apertura di cuore;
offerte di incenso o marjuana, che simboleggiano ordine e disciplina;
offerte di cimbali, chitarre elettriche e microfoni. Il loro suono rappresenta la saggezza, attraverso cui raggiungiamo la compassione collegata alla comprensione dell’interdipendenza di tutti i fenomeni.
Spesso il Maestro invitava i discepoli a osservare i fili di fumo che si levano dagli ex voto arrivando fino al firmamento oscurato dalla potenza del Sole, dove si alzano in volo, a intervalli irregolari, multicolori falangi di volatili orgiastici.
«Guardateli» diceva. «Prima di gettarsi in picchiata a seminare il panico fra le ordinate schiere di pesci argentei, ondeggiano per qualche attimo in aria: compatta unità parmenidea. Poi quelle filosofiche creature proclamano l’impermanenza eraclitea di ogni cosa: nella sua angelica caduta, ogni nugolo è un grembo materno che partorisce Godzilla, che distrugge le Torri Gemelle, che precipitano nella tana del Coniglio Bianco, da cui si accede a un Giardino segreto; qui veglia una Chimera, che ha la coda di una Sirena, e quella Sirena è l’elefante sacro Sechanaka, che è Moby Dick: che s’immerge, con enormi spruzzi, nel silenzio blu della liquida informità primordiale – dove lo straordinario, il sorprendente, l’incredibile e l’impossibile diventano veridici».
«Dando così ragione» concluse in una di queste occasioni il Pescivendolo «a Sigismondo Malatesta, che scelse come motto "La vita è sogno". Poichè, dormendo, credette di essere stato imprigionato in una torre; ma quando si svegliò, scoprì di essere un prigioniero che aveva sognato di essere stato principe di Ariminum e Fano».
«L'è vera» intervenne Tim, che conosceva bene le ghost story locali. «His famous last words were: “sèm in un mònd tent sgumbič that living is just dreaming. Lesson learned: en òm who lives dreams on, until s'ha svegia”».
«Che cosa cavolo ha detto?» chiese il Piccolo Ed.
«Le sue ultime parole furono: “siamo in un mondo tanto strano che vivere è solo sognare; l’esperienza mi insegna: un uomo che vive sogna di essere quello che è, finché non si risveglia” tradusse come al solito Earnest.
Anche la costa attorno alla Fortezza Bastiani è incantevole – con le frange verde cinabro estese a perdita d’occhio lungo la spiaggia immacolata sembra un ologramma. Lo Zefiro pettina la chioma delle piante e scuote la polverosa forfora accumulatasi in cima a cartelloni arrugginiti, sparpagliati lungo i sentieri più battuti, su cui sono affisse pubblicità scadute. Un cane tira gli slip di una bambina dagli occhi azzurri, sulle parole del motto “abbronzatevi non bruciatevi”. Un cavallo niveo corre fra onde di bagnoschiuma. Un chitarrista jazz emerge dall’ammollo per dichiarare che “Non esiste lo sporco impossibile”. Anche un Lanciere Bianco, sul destriero bianchissimo, si batte per il trionfo del pulito contro lo sporco più sporco. C’è pure la Tabaccaia, ritratta mentre bacia un pulcino albino con in testa un preservativo rotto, in una locandina che pubblicizza il bordello di Earnest proclamando: “L’Ava, come lava!” (sullo sfondo, un Vesuvio fumante a forma di pene). Una ragazzina, seduta su un muretto, fino a pochi attimi prima era assorta a ripassare la lezione di storia: ora è distratta dal comportamento di un candido leporide che consulta un orologio a cipolla – un soggetto lunare, un gioco di specchi.
Ai confini fra pineta e spiaggia, fra superfici ocra su cui gli alberi proiettano la loro scura immagine, la figura luminosa di un bambino avanza facendosi strada attraverso una zona chiara. Il piccolo indossa un vestitino color panna, allacciato sulla schiena, i cui due lembi oscillano al vento, mentre lui rincorre una palla rossa. Il vento porta un profumo che sembra di fiori d’arancio, di zagara, di jacaranda: benché si scorgano solo pini, una distesa di giada assopita a fianco di un mare cristallino come le lacrime di una bambina cresciuta troppo in fretta.
Forse allora è solo l’ombra deforme di una nuvola quella che, per un istante, sembra appartenere a un Essere malvagio, nascosto dietro un sempreverde secolare a spiare il piccolo calciatore con pessime intenzioni.
«Morire, dormire, forse sognare» sospirò il JubJub, ammirando il panorama.
«O essere del tutto ubriaco» rispose il Roc.
«Sì, questa è una possibilità intermedia».
«Una possibilità intermedia? Allora, secondo te, lui è addormentato, ubriaco o morto?».
Il Roc indicò l’Uomo Sabbia a pochi metri da loro. Era una riproduzione di Federico Fellini, realizzata dal gruppo di sand tech-sculptors che ogni anno creava un Presepe Vivente con la sabbia della Spiaggia Iperurania, sotto la direzione di Joseph Albers e Kazimir Severinovič Malevič. La statua era amalgamata con sensori e microchip, collegati attraverso due forme di Intelligenza Artificiale (una neuromorfica e una quantistica) installate rispettivamente nella testa del bue Pinsìr e nell’imbracatura dell’asinello Ricùrd. Una metafora dell’uomo dotato di due cervelli: uno biologico e l’altro meccanico – in tasca, dentro uno smartphone. Grazie a questa tecnologia, le statue prendevano vita durante lo spettacolo che si teneva ogni mezzogiorno in punto.
Fellini era al centro della scena, su una sedia da regista. Era raffigurato come uno dei Magi, arrivato dall’Oriente sul dorso del dromedario che giaceva al suo fianco – indossava il canonico mantello rosso, pantaloni dorati dalla foggia arabeggiante e un paio di calzari viola; ma con il tipico cappelluccio floscio a riquadri al posto del turbante, da cui fuoriuscivano delle orecchie un po’ abnormi, e una camicetta a maniche corte in luogo della tunica. Un paio di Saraghina Eyewear calati sul naso ne lasciavano intravedere lo sguardo. Nel complesso, aveva più dell’Anthony Hopkins nella parte di Odino che del Melchiorre o del Baldassarre: in un set grandioso come un Valhalla, dirigeva una folla variopinta di personaggi che portavano il dono del Cinema a Gesù, attraversando scorci e ambientazioni resi celebri dalle sue pellicole – il Circo, Cinecittà, il Grand Hotel, il Fulgor, l’Inferno di Maciste, la Fortezza Bastiani, il Mocambo, l’Auditorium di Prova d’orchestra, il Rex.
«Sta sognando,
ovvero sta creando».
«Mmm… nei sei certo? Sai cosa sogna?».
«Sogna questo:
“I matti sono nel mio salone.
Lo Sceicco Bianco, la Tabaccaia e un Vitellone
Ma altri ne arrivano in processione.
E se la diga si spezza prima del previsto
E se in cima alla collina non c’è più neanche Cristo
E se la testa esplode con il fragore di una mina
Ti vedrò sul lato oscuro della Luna.
Quello più strano
Quello più atroce
Quello di cui già ho sentito la voce”»
cantò il JubJub.