Il volo di Dana
Dana era rimasta tutta la sera da sola, seduta sul letto a fissare la sua sagoma riflessa dalla luce del neon sull’anta bianca dell’armadio. Accanto a lei un vecchio borsone scuro di tela e uno zainetto a righe bianche e blu. Lo usava per la scuola, ma da un po’ di tempo aveva smesso di andarci, non aveva più voglia di vedere nessuno.
L’unica cosa che la incantava del misero appartamento in cui viveva con la madre era un nido che, chissà per quale motivo, le ghiandaie marine avevano costruito sotto il tetto di un grigio palazzo di periferia invece che all’ombra di un grande albero.
Aveva sentito dire che quei minuscoli uccellini dal piumaggio fulvo e turchese erano in grado di volare per ore e ore, per chilometri e chilometri, sopra il mare, il deserto, le foreste, per andare a svernare in luoghi più caldi e tranquilli. Sognava di spiccare il volo e di seguirli nel loro viaggio.
Ma le ali per volare lei non le aveva, era invece prigioniera dell’incubo di quelle ombre che aveva visto più volte entrare nella sua stanza, di quelle voci che le si avvicinavano sempre di più, le pareva di sentire ancora il rumore della porta chiudersi e il tramestio di oggetti urtati e fatti cadere. Sua madre ripeteva che erano fantasie e le aveva vietato di parlarne con anima viva altrimenti si sarebbero cacciate nei guai, sarebbe intervenuta la polizia. E, a furia di mentire anche a sé stessa, Dana aveva finito per confondere realtà e immaginazione.
Si era appisolata da qualche minuto, quando fu svegliata dal rumore sordo della porta di ingresso. Sua madre era rincasata, ubriaca come al solito. Doveva essere inciampata, gridava perché andasse ad aiutarla a rimettersi in piedi.
Dana la fece sdraiare sul divano e rimase a guardarla finché non la vide addormentarsi. Poi infilò il giubbotto, mise lo zainetto sulle spalle e il borsone a tracolla. Mentre usciva di casa, udì un cinguettio e un frullo d’ali: voltandosi un’ultima volta verso la finestra, le parve di vedere un paio di ali azzurre librarsi nel cielo dell’alba.