Secondo una corrente di pensiero piuttosto diffusa fra gli habitué della Fortezza Bastiani, il Maestro non parlava per metafore quando affermava che la gente vede il mondo con gli occhi degli artisti. Si riferiva agli Artisti Dannati. Di cui si sapeva poco: i miti relativi alla loro origine e condizione attuale erano confusi, contraddittori. Per alcuni erano misteriosamente emersi dalla campagna, per altri dal mare. Come il candido bue dalle corna lunate che solca placido i pascoli dell’Odissea e la Balena Bianca che furoreggia fra i marosi di Melville, talvolta apparivano a un vecchio perduto nella nebbia, o nei ricordi. Ma perlopiù stavano nascosti, si narrava, in anfratti inaccessibili della Spiaggia Iperurania.
Perciò molti ne consideravano l’esistenza una favola; e ancor più immaginaria ritenevano la sfida che erano condannati a lanciarsi da tempi immemorabili, attraverso la creazione di campi per la distorsione della realtà. Si sarebbe trattato di strutture cellulari invisibili anche ai tomografi più potenti, che crescevano nel sistema nervoso centrale, colpendo quindi l’insieme di encefalo, midollo allungato e cervelletto. Incidendo sulle componenti chimiche dei cervelli, portavano gli individui a inquadrare i fenomeni esterni entro schemi precostituiti. Le persone vi rimanevano bloccate, come le puntine dei vecchi giradischi nei solchi dei vinili; e non ne uscivano fino a che un altro Artista Dannato erigeva un nuovo campo di distorsione che sostituiva o integrava i precedenti.
Warhol ad esempio faceva apparire ogni volto di donna su un grande sfondo dorato; un effetto indotto da Klimt era di trasformare quello stesso volto in un puzzle composto da tessere simili a quelle dei mosaici bizantini ravennati. Talvolta il repentino sovrapporsi di due campi di distorsione differenti determinava una crisi, che si manifestava con un’improvvisa incapacità di esprimersi o con l’insorgere di strane sensazioni (odore di bruciato, l’impressione di assistere a una scena invece di parteciparvi). La percezione restava sospesa per pochi secondi: quindi le persone scivolavano in una nuova normalità.
Per chi ci credeva, Picasso guidava la classifica di questo gioco, grazie alla capacità di ottenere l’impossibile. Come quando aveva manipolato i designer della Apple tramite la teleipnosi, convincendoli a trasformare il suo quadro Due Personaggi, del 1934, nell’icona del Mac, creata nel 1997 e divenuta quella della funzione Finder. Era anche riuscito a infiltrare una figura subliminale nello spot di Apple Think Different. In certi giorni dell’anno, quando minaccia di piovere e le prime gocce di pioggia si avvertono nell’aria, il volto fantasmatico del genio spagnolo appare su YouTube al secondo 0:42.
Picasso era convinto di appartenere a un club ristretto: Einstein, Shakespeare, John Belushi, Bertie Wooster, Federico D. Fellini e una manciata di altri. «Quando pensiamo – diceva – stiamo pensando i pensieri di Platone; quando vediamo un’immagine, lo facciamo con gli occhi di Fidia o di Rothko; quando sentiamo il suono tortuoso del vento, lo ascoltiamo con le orecchie di Mozart, di Miles Davis, di Paul McCartney».
Era pazzo? Sta di fatto che aveva instillato le forme e i colori del suo Cubismo in ogni ariminense – al punto che il loro essere nel mondo era tutto Periodo Blu al Tramonto, Periodo Rosa all’Aurora. Invano in quei momenti altri Artisti Dannati cercavano di inserirsi nella percezione che gli abitanti di Ariminum avevano della realtà. Ci riuscivano in pochissimi solo per alcuni attimi, al Crepuscolo. Degas, che faceva apparire lavandaie – lampi di accecante luce rosa – ai bagnini intenti a pulire sedie a sdraio e lettini abbandonati sulla spiaggia; Manet, capace di sorprendere il turista attardatosi a cambiare il costume in una cabina mobile con lo spettacolo di una cortigiana, distesa senza nulla addosso, se non le Havaianas Freedom Metal Pin ai piedi e un nastro di velluto viola attorno al collo; Gauguin, che tentava di contrabbandare la pineta di Ariminum per un’allegoria mistica della foresta tropicale tahitiana, con alberi celesti e uccelli gialli; Cézanne, trasformando i verdi cieli romagnoli in quelli lilla della Provenza.
Alla fine, era sempre Picasso a spuntarla, con una magia invincibile. Pennellava sulla tela grezza il malinconico azzurro di Mallarmé. Mentre dipingeva, i recettori sensoriali dei cittadini erano invasi dall’intensità del rimorso di una colpa irrimediabile. Con le percezioni così modificate, gli ariminensi si vedevano come pezzenti, mendicanti, bambini emaciati, ubriachi, buffoni di strada immersi in una luminosità livida, dove il tono via via predominante era un blu lugubre, cianotico. Anche il mare diventava grigio, violento, una specie di brodo di alghe in perpetua ebollizione. Per farsi coraggio, sotto una coperta di stelle rubata da Picasso a Van Gogh, intonavano la serenata strimpellata dal vecchio musicista della pineta con un sitar che ne subissava il fisico gracile.
Al termine di una notte trascorsa fra ossessioni e deliri, il pittore induceva nel popolo di Ariminum uno stato d’animo opposto. Cominciava a lavorare con più indulgenza, grazia e delicatezza. Gli ariminensi diventavano strane tribù di zingari, di saltimbanchi, di commedianti, di acrobati: le ammalianti figure, mezzo eroiche, mezzo patetiche, del Periodo Rosa. Il miracolo si era ripetuto anche quella mattina. Tutti si muovevano per le vie cittadine con una grazia da balletto, ubbidendo a ritmi armoniosi accentuati dal tono della luce, che assumeva sfumature tenere e chiare. Non per molto. Gli altri Artisti Dannati avrebbero presto ripreso la battaglia per il controllo delle menti e quindi della realtà.
Il Sole era sorto ormai del tutto.
Guardingo ma rilassato come un serial killer devoto all’hashish, il suo primevo fulgore scendeva dalle montagne per giungere ai declivi fra cui riposava Ariminum. Con la complicità del Garbino – l’infido vento del Sud, polveroso portatore d’acqua – fendeva la piana spartita tra i legionari reduci dalle conquiste imperiali, affettata a precise losanghe in migliaia di poderi, incastonati fra rette intersecanti di strade, stradelli e carrettiere; attraversava circospetto i canneti melmosi del Rubicone dove Cesare giocava a dadi; strisciava lungo le mura romane ricostruite dai Crociati con le pietre rubate al Tempio di Gerusalemme maledetto da Geova; percorreva i labirinti cittadini srotolando un filo luminoso su piazze, parchi, viali sorti dagli antichi accampamenti militari; e si arrampicava sulle pericolanti grondaie di epoca medioevale. Qui sostava un attimo, prima di calare il pugnale di luce con cui trafiggeva le palpebre di chi ancora non era passato dai sogni del sonno agli incubi della veglia.
In quel momento cruciale, il Maestro e il Custode stavano entrando nel parco giochi dell’Asilo sulla spiaggia, a circa un chilometro dalla Fortezza Bastiani. Il perimetro ottagonale era delimitato da lastre verticali di marmo con coppie di fori tramite cui i bambini potevano sbirciare all’esterno. Nelle tiepide giornate primaverili, quando Adad, il dio della pioggia, aveva terminato di distribuire la sua benedizione, si riversavano fuori dall’edificio e da quei buchi guardavano incantati le linee spezzate delle colline rincorrersi fino al Cliff ariminense per precipitare in mare sotto l’arcobaleno: un paesaggio di pendici e strapiombi, di fasce e terrazzamenti raccolti in macchie rosse, acuminate, ascendendo alle quali l’umano imboccava la via della trascendenza, per arrivare alle vette vaporose dell’anima.
I due amici si muovevano con la cautela degli equilibristi. Non volevano smarrire una stabilità raggiunta a fatica sul velo di brina, più impalpabile di quello di Maya, che ricopriva i rombi del camminamento di lavagna nera e si allargava sulle attrezzature e le costruzioni in plastica – le pedane arancioni, le torrette giallastre con i tettucci triangolari verdognoli, gli scivoli di un ruvido blu, le casette cubiche marroni, le altalene color sangue, le file parallele di appigli violacei per arrampicare, i cavallucci a pois, gli aeroplanini-elefanti con grandi orecchie, le pantere rosa, gli uccelli dalle piume di cristallo montati su spirali di molle argentate. L’insieme di forme e colori era intensamente spirituale: senza però riuscire a nascondere una perturbante vena d’apprensione per qualcosa di allarmante in agguato nel fondo dell’Essere. Che, nel caso dei nostri eroi, avrebbe potuto aggredirli sotto forma di devastanti effetti psicofisici derivanti dall’ingente quantità di vodka ingerita durante la notte appena spirata.
Giunti in fondo al parco senza danni, i compari si fermarono sul limitare della pineta, in una zona attrezzata per ospitare i genitori dei bambini in smart working con poltroncine rivestite da tessuti a fiori di Aïssa Dione; il divano Ribes di Citterio, dalle imbottiture riempite di pannocchie; gli alberi-libreria di Sebastian Errazuriz.
«’Ste scarane, these chairs, fata roba, che stranezza! An sé mai vist na fornitura of this kind. E quel tavlàz? L’é un curiòus arzmòint… cam dit voialter, come dite voialtri… una cosa proprio da fuori di testa!».
Il Custode si era avvicinato a quattro sedie Filla – con la seduta in frassino da cui le gambe posteriori si biforcavano come rami e due foglie a fare da schienale – accostate a un banco Ryoba, di Porro, sul quale sbocciava una lampada vintage a forma di cactus disegnata da François Chatain. I mobili sembravano nati all’improvviso, senza un ragionamento, simili a funghi bizzarri disegnati da un marmocchio. Come se i creatori di quei pezzi d’arredamento cercassero di sorprendere l’Uno che non sta al di là delle sue manifestazioni mondane, ma che esiste in esse – lo stesso intento, a ben vedere, degli utopistici architetti della città in miniatura progettata per lo svago dei suoi lillipuziani abitanti.
Il Maestro citò Kandinskij: «Le cose che incontriamo per la prima volta ci fanno una profonda impressione. Così sperimenta il mondo il bambino, per il quale ogni oggetto è nuovo. Vede la luce, ne è attratto, vuole afferrarla, si scotta le dita e inizia ad aver Paura e Rispetto per la Fiamma».
La faccia orrenda di Tim, i cui tratti rammentavno in genere quelli di uno psicopatico sudorientale, divenne radiosa come il Sole quando splendeva sul ghetto egiziano di Bellaria. «Paura... sounds good».
«Un Asilo è perfetto, quando le lezioni non sono ancora iniziate, per comprenderne la natura. La natura della Paura, intendo. In apparenza: vuoto, silenzioso, indifferente. Un cristallo. In realtà, nervoso, con mille voci sommesse, gravido di attesa. Terrorizzato, persino, dalla minaccia aleggiante, benché inespressa, di essere violentato».
«The same feeling, perhaps, dei Burdei Perdù (i Bambini Orfani dell’Asilo, N.d.R.) quando li guardo».
«Gli occhi sono martelli».
I due si sedettero sulle poltrone dell’area attrezzata. A quell’ora comparivano le avanguardie del popolo natalizio in marcia verso i bagni. Contadini grassi in braghette Adidas arrivati da Gambettola su Ape Piaggio station wagon colmi di verze, pere e lischi da fare al limone; commesse grasse dell’Ipercoop di Fusignano in costumi mutandosi, scese da Suv arancioni con i rimorchi carichi di seggioloni e ombrelloni, usati quasi nuovi trovati su eBay, borsoni termici connessi in Cloud comprati su Amazon, tendoni e tappeti magici in promozione su Alibaba; ragazzotti forlivesi sudati, insabbiati e grassi che si davano da fare con biglie, palle, mazze da golf e racchettoni; pingui sbarbine di Milano Marittima in tankini che su teloni colorati disponevano tapperware indiani in cui metri di salsiccia giacevano assopiti come serpenti velenosi; erigevano colonne di piadina istoriate con arabeschi di prosciutto crudo e mortadelle al pistacchio; schieravano battaglioni di cappelletti al ragù scortati da impettiti tacchini ripieni di squaquarone; pronte a girare video foodporn da postare sul sito di MasterChef.
Sosia grassi di Federico da Montefeltro e Battista Sforza scrutavano l’infinito, mentre l’ultimo obeso discendente dei Malatesta tentava un selfie di profilo, il faccione che entrava a stento nel quadrato di Instagram. Un ardimentoso, abbracciato a un fenicotterone rosa, si tuffava nel mare d’inverno protetto da un cospicuo strato di adipe – antesignano di uomini e donne lardosi fermi con l’acqua alla cintola, chi facendo ettolitri di pipì, chi arando il fondo con i piedoni in cerca delle poveracce, le vongole, da buttare in padella sul far della sera; allora ci sarebbero state diagnosi neuroscientifiche, teorie gnoseologiche, profezie – fra fette di anguria quasi gelata che avrebbero reso quegli enormi chiacchieroni ancora più pachidermici.
Ma non solo le persone erano grasse. Tutto si gonfiava e prendeva volume: i cesti ricolmi di mele, banane, arance da cui attingevano mosconai palestratissimi dopo avere trasportato sul bagnasciuga file di pedalò ciccioni; i mandolini che baywatchers nude al soldo del Pescivendolo pizzicavano in attesa di clienti, con fori di risonanza tanto piccoli da fare risultare gli strumenti tozzi e allargati – e lo stesso valeva per la fessura fra le gambe delle donne; le distese di alghe multicolori, mescolate e rimescolate dagli alti cavalloni che si rincorrevano sulla riva dell’amplissima spiaggia.
Con tutto ciò, oggetti, persone e animali avevano la leggerezza zaratustriana delle bolle di sapone; o di quel personaggio descritto da Wells, che aveva perduto il peso specifico, e per timore di volare via come un palloncino usciva di casa con una valigia per mano piena di sassi. Sì, erano palloncini gonfi di elio, pronti a librarsi in volo, immortali: perché soltanto gli uomini senza peso non sono trascinati giù dalla morte, giacché non vivono nel mondo, ma intorno e sopra al mondo, come l’aria e la luce.
A quanto pareva, concluse il Maestro, nel perenne agone fra gli Artisti Dannati, quella mattina il primo round se lo era aggiudicato Botero.