L’orologio rotondo alla sommità dell’edificio ad arcate – una stazione ferroviaria; o un altro (non) luogo abitato dalla divinità – segnava le due e ventisette, anche se la luce e le ombre sembravano indicare un’ora del pomeriggio più avanzata. Al vertice di un ipotetico triangolo, nella loggia superiore, s’intravedeva la figura del Pirata con l’Uncino di spalle, con un drappo sulla schiena e una mazza-fenicottero sottobraccio, che scrutava l’orizzonte tempestoso attraverso grandi Velux Cabrio affacciate sul porto. Nella galleria sottostante, Jay, rinserrato nel cilindro di un giubbotto grigio scuro, si dirigeva verso destra con le movenze di un automa fatto di rame o di pietra o di legno, lo sguardo che vagava in alto, sforzandosi di trattenere le lacrime.
Daisy, coperta da un pareo rettangolare bianco in organza che faceva intravedere le righe e gli scacchi del corpo tatuato, portava una borsa di nylon dai manici tempestati di charms con banane, lamponi e scimmie – sulle fasce della tracolla trionfavano foglie di palma: le Hogan a righe iridescenti, lacci multicolor, applicazioni di fiori in denim e decori fatti con perline la conducevano verso sinistra. Una sigaretta accesa in mano e il volto piegato in basso.
I due avevano litigato, le loro vite erano sul punto di prendere direzioni opposte? O si muovevano come le formiche sul Nastro di Möbius disegnato da Escher (osservandole attentamente ci si accorge che gli insetti non stanno camminando su lati opposti, come potrebbe sembrare a prima vista. Al contrario, proseguono uno dietro l’altro in fila sull’unica faccia di quella superficie)?
«Si va per vie opposte, più che distanti,
se si hanno disposizioni parallele
– per lo yoga, il latte o il miele –
ma s’è guidati da inclinazioni contrastanti» cantilenò il JubJub, gettando un’occhiata alla scena in lontananza, dal patio della Fortezza Bastiani, chiamato dagli ariminensi la tègia per la forma che ricorda quella del testo per cuocere le piadine: architettura classica e modernissima insieme, uno dei capolavori dell’architettura romagnola.
L’uccello poeta tornò alle sue faccende. Il palo al quale stava aggrappato era di ferro: benché fosse coperto da una leggera patina di ruggine, non offriva sostegni per gli artigli, né era tantomeno pieno di succulente larve. Cosa stava combinando?, si chiese il Maestro, che, a pochi metri di distanza, lo osservava. Picchiettava con i denti facendo suonare il palo, cambiava posizione e bisbigliava fra sé. Forse, si disse, prova l’accompagnamento di una nuova canzone. Che in pochi capivano, e ancor meno apprezzavano. «I suoi racconti – diceva il Capitano, quando era in vena di rendere omaggio all’avversario di tante sfide dialettiche – nel migliore dei casi si fanno ricordare per l’aneddoto che narrano, per i personaggi che muovono: mai per l’anima che spirano. Non hanno peso, consistenza, e dunque importanza o rilievo». Esponeva queste tesi assumendo un tono drammatico, come se le sue parole determinassero il destino della Vita, l’Universo e di tutto quanto.
Il JubJub, a questa critica specifica, aveva replicato così:
«Io al pari di Botero voglio bene alla vita.
E a me sembra che chi tra gli uomini ha della farfalla
e della bolla di sapone,
sappia meglio di tutti cosa sia la felicità.
Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare.
E quando ho visto il mio demonio,
l’ho sempre trovato serio, radicale, profondo, solenne:
era lo spirito di gravità
− grazie a lui tutte le cose cadono.
Non con la collera, col riso si uccide.
Orsù uccidiamo lo spirito di gravità!».
Quindi forse, attaccato a quel palo, l’uccello-poeta stava elaborando una nuova declinazione della leggerezza; ennesima tappa nella ricerca d’una grandezza artistica ottenuta non per mezzo della permanenza, della durevolezza dei testi nel tempo, bensì in virtù dell’antipeso e dell’antidurezza, dell’antieternità. Magari era una canzone scritta per consentire al dio danzatore in cui credeva di ballare e ridere fino alle lacrime, congetturò il Maestro.
Di qualsiasi cosa parlasse la canzone, musica e parole furono coperte dal fischio di una locomotiva in arrivo. Quell’edificio era proprio la stazione di Ariminum progettata da Santiago Calatrava.
Da lì, il viaggiatore sceso dal treno (“sbarcato”, preferiva dire il Capitano, perché conferiva all’azione “un che di navale”) incamminandosi verso le colline per raggiungere l’infernale Cattolica (città natale del Pescivendolo), se non la più distante e lussuriosa Gradara (di qui invece era originario Jay), percorreva la Erfahrung Road, che attraversava prati ricchi di viole e decine di fiori diversi, dispiegati fin dove l’occhio poteva spingersi. Dagli ariminensi era chiamata la parte di Zvann, la strada del Servo (lo Zanni). Avventurandosi nei mille sentieri che da quella si dipartono verso Ovest, era facile trovare la materia prima per confezionare specialità tradizionali come la gassosa all’edera, la confettura di tulipani, il chinotto all’estratto di geranio, il miele di glicine, i fiori canditi (dalle violette alla mimosa). La fragranza del cedro si spargeva dappertutto, mischiata alle voci delle filatrici di colore, che nei cortili d’intorno lanciavano spole fra i fili tesi delle trame cotonine. L’antico poema della macchina Singer circolava tra le rose delle serre, accompagnato dai canti del folklore locale: Brunneis Sugarus, Dulcis Jane, Cocaine, Soror Morphine, Lucy in Caelum cum Diamantis.
Ma una selva verdeggiante, oscura, aspra e forte – adattissima per un eventuale ennesimo remake di Jurassic Park – cingeva da Est le loro abitazioni: vi crescevano le palme da cocco, il baobab e il fiore della passione, adorato da torme di insetti alati. Vi trovavano rifugio i culti pagani, i Fauni indigeni e le Ninfe, gli eremiti, gli emarginati, i fuorilegge, gli agenti letterari, i banditi, i pellerossa, i cacciatori di teste, i cosacchi che sbucano all’improvviso in azioni di guerriglia, le adultere condannate a portare stampata sulla pelle la lettera A, i nani minatori in fuga dalla devastazione operata da draghi rapaci, i cavalieri erranti in cerca di principesse o secchie rapite, gli elefanti bianchi, i feroci Typee, i babirussa, i kriss, i dayachi, i ramsinga, i maharatti, i thugs, le pomponasse, gli yatagan e, nel cuore più profondo, tenebroso, di quella giungla nera, entità innominabili che sfuggivano alla normale logica umana, portatrici di un male sconosciuto e indefinibile: eppure atteso.
Se invece dalla stazione si preferiva prendere la strada prospiciente, s’imboccava l’Iter Erlebnis, che conduceva verso il porto e alla luce accecante della Spiaggia Iperurania. L’è andè a la basa, dicevano gli ariminensi per indicare qualcuno che l’aveva imboccata. Fra erbe che producevano seme, cominciava ad annunciarsi la pineta, poi sempre più fitta e animata da esseri che strisciavano per terra – la talpa, il topo vulgaris, il toporagno e il cronotopo di Bachtin nelle sue varianti logistiche, psicologiche e metafisiche, ogni sorta di sauri, il geco, il ramarro, il camaleonte, una gran quantità di quei piccoli varani che gli ariminensi chiamavano affettuosamente Francesco, l’anfibio mutante rana-salamandra-lucertola a due teste, il prolemure, l’abaoaqu: tutti cucinati dalla popolazione locale in speciali vasi di terra dopo aver lasciato le loro carcasse a macerare in acqua per molte ore.
La pineta era in realtà una vera e propria foresta. Il vecchio esperto di botanica 4.0 che viveva lì sosteneva di avere censito quarantaduemila varietà vegetali diverse, di cui almeno ventisettemila con proprietà medicinali. «Questo luogo è l’ombelico del mondo. Qui risiede il secondo chakra dell’Universo, abbinato all’elemento acquatico. Se bloccato, seguono rigidità, inflessibilità, incapacità di esprimersi creativamente o di generare in tutta Ariminum» diceva. Per monitorare la persistenza del flusso vitale, il botanico aveva distribuito ai diversi livelli dell’ecosistema (radici, foglie, tronchi, rami) oltre settecentomila sensori, attraverso cui teneva sotto controllo i parametri di umidità, temperatura, livello di anidride carbonica di ogni singola pianta. Attraverso un software messo a punto dal Maestro, i dati venivano incrociati e, ogni sessanta minuti, visualizzati in forma di anelli digitali, trasmessi in diretta da una serie di giganteschi televisori ologrammatici distribuiti lungo la Spiaggia Iperurania. Se qualcuno toccava un albero, inoltre, quello reagiva producendo, in base a un algoritmo progettato dal Piccolo Ed, sempre nuove variazioni della canzone A Forest, diffuse attraverso gli altoparlanti della Publiphono: se alla pianta veniva fatto del male (le si strappava un ramo, per esempio) l’algoritmo rielaborava il pezzo in un modo simile a quello originario, alla maniera angosciante dei Cure; se invece un giardiniere o una guardia forestale la concimava o l’innaffiava, ecco che la musica si faceva più dolce e spirituale, avvicinandosi all’interpretazione dei Novelle Vague.
A tutto questo pensava il Roc che, in posizione totemica, era in piedi a fianco del JubJub cercando come al solito di debellare l’emicrania. Mentre, rifletteva con un certo rammarico, in quella pineta godevano di ottima salute i suoi simili, gli uccelli che tra i rami più alti degli alberi avevano fabbricato il nido con foglie d’erba e fuscelli – alata genia varia d’usi e costumi, ebbra di vita, che ogni mattina si svegliava e cantava per tutto il giorno fin oltre la mezzanotte. L’ossifraga, i nibbi, o strigi, albatros di tutti i generi, i puffini dell’Adriatico, falconi, girfalchi e astori cinesi, le futuristiche rondini figlie di Procne e sacre all’orgiastica Dea-Luna, lo struzzo, la civetta, il cuculo, l’aquila marina, il buraq, l’usignolo Filamela, il serpente alato impiegato per la magia erotica, le spatole che succhiano il respiro dei malati, il gabbiano Jonathan e sterminate legioni di sparviere, scriccioli e allodole, le tre figlie di Minia chiamate Alcitoe, Leucippe e Arsippe o Aristippe o Arsinoe, le tre Sirene omeriche cugine degli Uccelli di Rhiannon del mito celtico, che piangevano la morte di Bran e di altri eroi, il gufo, l’alcione che allontana il Male, l’ibis, la folaga, il picchio pratico d’incantesimi acquatici, gli avvoltoi augurali, il dio Chem, il grigio Ceneo, la predatrice Arpalice, la cicogna algonchina, gli Stinfali dai becchi di bronzo, dagli artigli di bronzo, dalle ali di bronzo, divoratori di uomini, sacri ad Are, demoni delle febbri, grandi come gru e somiglianti agli ibis inventori della scrittura, ma che sono donne, adorate nei tre templi eretti da Temeno in onore di Era (nel primo essa era onorata come Fanciulla, perché Temeno l’aveva allevata; nel secondo come Sposa, perché si era unita a Zeus; nel terzo come Vedova, perché aveva ripudiato Zeus ritirandosi a Bagnocavallo), ogni razza di airone, la famelica upupa discendente da Tereo, le Mnemonidi straziate, la vulcanica pernice, pandione il tuffatore, la dendroica cerulea, lo struzzo arabo, il ciris dal petto rosso porpora, il cigno nero, il pipistrello bianco, l’anatra selvatica, la ghiandaia imitatrice, il tordo sbeffeggiatore, il pappagallo scocciatore, il barbagianni del malaugurio, il corvo parlante con il suo triste “mai più!”: ma, soprattutto, la cornacchia, loquace, gracchiante amica delle rive del mare.
Una buona ragione per preferire la montagna, concluse il Roc, prima di ribattere.
«Due individui vanno in direzioni opposte se hanno disposizioni parallele per il sesso e la droga, ma sono guidati da inclinazioni contrastanti per il Rock’n roll» rispose dunque il Roc, dopo essersi messo al lavoro sull’ennesima bottiglia di vodka: una Classique, alla genziana, nota per il distillato millesimato contenuto in un bustier e chiusa con un tappo formato da due scalcianti gambe femminili. Con quelle movenze asinine sembravano colpire le terminazioni nervose negli abissi più profondi del suo cervello. Al tempo stesso, la marea incombente del vomito gli suscitava il desiderio di chiudere gli occhi per dormire. Non poteva soddisfarlo perché nella mente urlavano voci ed echeggiavano suoni – il canto del JubJub, allucinante come un’opera rock dei Pink Floyd; le imprecazioni di Tim, urticanti come un pezzo dei Sex Pistols; le lezioni del Maestro, fondamentali come ogni album dei Beatles; le chiacchiere di Daisy ed Helen, necessarie come Barbie Girl degli Aqua; il suo stesso flusso di coscienza, stridente come la chitarra di Robert Fripp quando suona Elephant Talk. Era il perpetuo ritorno di un morso dentro il nervo ottico, una violenta strizzata al bulbo oculare, chiodi alla tempia, crocifissioni alla fronte e sul sopracciglio. Dalle orecchie gli arrivavano segnali di vertigine e di sconcerto. Gli sbadigli erano alternati a scosse elettriche. A ogni battito delle vene nel cranio, il dolore si accentuava ancora. Finché, eccezionalmente, una pulsazione cardiaca non portava dolore e per qualche secondo le voci tacevano. Ma subito il maligno ritmo riprendeva a tormentarlo: di nuovo ritornava la cadenza di sofferenza, poi la pausa si ripeteva ancora, e così via, all’infinito, come il pulsare beat delle canzoni a quarantacinque giri degli anni Sessanta.
Intanto la silhouette di Daisy si era allontanata dall’edificio ad arcate, avvicinandosi alla fontana trapezoidale dirimpetto al patio della Fortezza Bastiani. L’esile figura in abito bianco, vista di traverso, era appena percettibile e, più che a un essere umano, era simile a uno spettro o a una statua riprodotta senza ombra in un quadro da un pittore distratto.
«E le attrazioni più emozionanti si hanno tra due opposti che non si incontrano mai»: la glossa del Maestro si confuse con l’attacco di un gruppo musicale che provava, per il grande concerto in programma due giorni dopo, una cover di Communication Breakdown.
«Credo sia il caso di sottoporre Jay a un esperimento» pensò poi.