Ogni famiglia ha il suo linguaggio, anche la mia ne ha uno. Così mia madre ripete spesso il detto “chi più spende meno spende”, come le aveva insegnato mia nonna, che essendo di umili origini e avendo dovuto lavorare per tutta la vita, ricoprendo anche mansioni molto faticose, conosceva bene il valore del denaro e non era certo una consumista, per cui preferiva spendere qualcosa in più ma guadagnare in qualità.
Sempre mia madre usa spesso l’aggettivo “povero” o “poverino”: poverino questo, poverino quello, povera donna, povera me, povero ragazzo.
E così anch’io lo uso nel significato che si dà a questa parola nella mia famiglia. Quando mi riferisco a qualcuno definendolo con l’aggettivo “poverino”, però, gli altri spesso non comprendono quello che intendo e pensano che il poverino o la poverina di turno, sia una persona sfortunata o disgraziata, un miserabile, qualcuno da biasimare. Invece, per mia madre, il poverino è colui che merita comprensione e affetto perché sta soffrendo, è qualcuno per cui provare empatia.
Se nella mia famiglia non mancano i proverbi o le espressioni idiomatiche, il dialetto invece è poco utilizzato. La lingua siciliana è stata praticamente bandita non per rifiuto delle proprie origini o per snobismo intellettuale, ma per ragioni pratiche visto che se si parla spesso in dialetto, poi si pensa in dialetto e a scuola si fanno errori, perché le regole dell’italiano sono diverse da quelle del siciliano.
Eppure, mio padre, per il quale il catanese è la vera lingua madre, seguita dall’inglese americano, dato che ha lavorato per più di quarant’anni con gli americani, e solo poi dall’italiano, ogni tanto usa delle espressioni dialettali che creano non pochi equivoci dovuti al fatto che i suoi figli, genero, nuora e nipoti non riescono a coglierne subito il significato.
Una volta, mentre accudiva il mio bambino, mi telefonò a scuola nel bel mezzo di una lezione, facendomi saltare il cuore in gola.
- Marcella, non ti preoccupare - mi disse, e già cominciai a sudare freddo.
- Non è nulla di grave. Federico si è fatto male, ma è solo un “acchetto”- disse, cercando di spiegarmi l’accaduto senza farmi agitare.
Non conoscendo bene il dialetto, confusi la parola “acchetto” con “occhietto”, e insomma compresi che mio figlio di soli quattro anni si era fatto molto male ad un occhio. Così, disperata, chiesi permesso per andare via e scappai subito a casa già immaginando il bambino con il volto insanguinato, che rischiava di perdere la vista.
Arrivata a casa, per prima cosa afferrai con delicatezza il viso di Federico, per capire in quale occhio si fosse fatto male, ma poi realizzai che, per fortuna, la cosa era meno grave di come me l’ero immaginata; “acchetto”, infatti, in dialetto siciliano, o almeno nella lingua di mio padre, vuol dire asola, occhiello, ovvero Federico si era fatto solo un taglietto sulla nuca sbattendo contro lo stipite di una porta, si trattava di un taglio profondo, però, che necessitava di qualche punto di sutura.
Queste incomprensioni si creano ogniqualvolta mio padre, entrando in agitazione per qualche motivo, comincia a parlare in siciliano, lingua a lui più congeniale, quella che spontaneamente emerge nelle situazioni di forte impatto emotivo.
Così come quando, in barca con mio marito, allora ragazzo, si ritrovò con l’ancora incastrata sul fondale. I due, genero e suocero, un po’ come Totò e Peppino, iniziarono, quindi, la manovra per liberarla; mio padre, l’armatore della barca, ricopriva il ruolo di mozzo addetto proprio all’ancora, mio marito quello di capitano, addetto al motore. La manovra richiedeva molta abilità, e necessitava anche di una certa sensibilità perché il mozzo doveva cogliere il momento esatto in cui avvertire il capitano di spegnere il motore.
Ad un certo punto mio padre tutto concitato gridò: - “Astuta u muturi…astuta u muturi”!
Alessandro, mio marito, anche lui poco allenato al dialetto, confuse “astuta u muturi” con “a tutto motore”, iniziando così ad accelerare anziché rallentare, rischiando di rompere la cima che teneva legata l’ancora.
-“Astuta u muturi”! - continuava a gridare mio padre, e Alessandro, sempre con più grinta e convinzione, caparbiamente accelerava, finché, finalmente, l’italiano tornò tra le parole di mio padre che, scandendo bene ogni termine, gridò: - SPEGNI IL MOTORE!!
Ecco, di situazioni di questo tipo ce ne sono diverse, ma tutte hanno contribuito ad arricchire il nostro lessico famigliare e a creare dei tormentoni, per cui “acchetto” e “astuta u muturi” ricorrono spesso nei nostri racconti e ogni volta ci fanno sorridere.