Quando Evaristo lesse la traccia del concorso, si alzò di scatto dalla sedia, facendola cadere con un tonfo. Non si preoccupò di svegliare sua moglie, tanto quella alle dieci di sera crollava sempre come un sasso.
«Maledetti!», disse al soggiorno vuoto.
Partecipava al concorso La Venticinquesima Ora da quattro anni, ormai. Ogni anno attendeva con trepidazione le ventitré del sabato. Si aspettava sempre qualcosa del tipo: ”Scrivete un racconto con un cavaliere, una principessa e un perfido mago.” E invece, ogni anno, quei maledetti della Belleville si inventavano delle tracce assurde e incomprensibili. Come l’anno precedente: “Cosa succederebbe se un intero racconto, dall’inizio alla fine, ruotasse intorno a una parola che non si può dire?”. Ma che cazzo significava? Lui non aveva tempo da perdere con quelle sciocchezze intellettualoidi. Lui era uno scrittore. Certo, non aveva ancora pubblicato niente ma era comunque uno scrit-to-re.
Questa volta non mi fregano. Questa volta gliela faccio vedere io.
Si avvolse nella coperta viola, aprì un documento word vuoto e scrisse: “Era una notte buia e tempestosa”. Sì, come inizio non era niente male.
Alle quattro del mattino non aveva scritto altro ma era comunque orgoglioso di sé perché aveva delineato i personaggi principali. C’erano un miliardario senza scrupoli, la sua giovane e avvenente moglie, un poliziotto corrotto, un affascinante avventuriero dal passato oscuro, una trentenne single in cerca del grande amore e un ex agente della CIA.
Stretto nella sua coperta viola, Evaristo vagò per casa come un fantasma cianotico alla ricerca di una buona trama. Doveva stare attento. Non poteva permettersi di sprecare quei personaggi con un intreccio debole.
Alle nove sua moglie si alzò e trascinando le ciabatte fino in cucina, preparò la colazione. Mangiarono in silenzio i biscotti inzuppati nel caffellatte e poi Evaristo uscì. Camminò fino all’edicola del vecchio Giannino. Quando lo vide arrivare, l’edicolante gli porse il solito quotidiano.
«Allora, Evaristo, Belleville anche quest’anno?»
«Già…»
«Qual è la traccia?»
«Lascia stare, è roba da intellettuali, non capiresti.»
«Eh già, io sono solo un edicolante. Tu invece…»
«Ma che c’entra? Io sono scrittore dentro.»
«No, tu sei scrittore solo dentro.»
«Ma va’ a cagare.»
«Buona domenica anche a te, scrittore.»
Accompagnato dalle risate di Giannino, rientrò a casa. Trovò sua moglie in piedi nel centro del soggiorno. Magrissima, senza seno, con quella gonna lunga fino alle caviglie sembrava una scopa.
«Perché ti sei già vestita?», le chiese.
«Non ti ricordi? Dobbiamo andare a pranzo da mia zia.»
«Cosa? Neanche per sogno, io devo scrivere.»
«Ma è il suo compleanno.»
«Appunto, non ci siamo già stati l’anno scorso?»
Discorso chiuso.
Evaristo si riavvolse nella coperta viola e si buttò a capofitto nel racconto. Più procedeva nella storia, più si rendeva conto che era un piccolo capolavoro, roba da “fenomeno letterario dell’anno”. Scrisse, cancellò, riscrisse, corresse, tutto per stare dentro a quelle maledette 3600 battute.
Verso le undici di sera aveva terminato il suo racconto e già si immaginava intervistato da Fabio Fazio:
«Evaristo Broseghin, lei è stato definito lo Stephen King italiano. Come ci si sente dopo aver venduto duecentomila copie?»
«Mah, che vuole che le dica, io sono rimasto la persona semplice che ero. E comunque Stephen King non ha mai venduto duecentomila copie…»
Prima di inviare il manoscritto, rilesse l’incipit:
“Quando Evaristo lesse la traccia del concorso, si alzò di scatto dalla sedia, facendola cadere con un tonfo.”