Mondrian era inginocchiato sul bagnasciuga. Usava una canna di bambù per tracciare righe verticali e orizzontali sulla sabbia. Lavorava senza fretta. Intensificava la tensione di una linea, frantumava una figura geometrica, ricomponeva un angolo da una nuova prospettiva. Si fermava poi a osservare il mare, il cielo e le stelle, fino a che un’altra intuizione su possibili equilibri di forma e spazio lo spingeva a disegnare solchi ortogonali con una diversa armonia – in un modo razionale, ma non calcolato.
L’Artista sobbalzò quando Miró, giunto silenzioso da dietro, con una voce squillante disse: «A volte penso che solo Chuck Jones sia andato oltre il Cubismo».
Il catalano ridacchiò alla reazione scomposta dell’altro. Quella sera indossava una divisa da postino, che gli dava un’aria vangoghiana, alla Joseph Roulin. Si sentiva depositario di messaggi fondamentali per l’umanità.
Mondrian alzò il viso, lo riconobbe e sospirò prima di alzarsi e chiedere: «Chi?».
I due s’incamminarono in direzione del porto tenendo le scarpe in mano. Il mare, come un grande cane, ne leccava i piedi nudi con l’umida lingua salata.
«Chuck Jones, l’inventore della saga di Wile E. Coyote». Alle loro spalle, un soffio di vento trasformò quello che Mondrian aveva appena disegnato. Alcune linee sparirono, altre assunsero inclinazioni diverse. Ora sembrava un Grande Arpione roteante in un cielo stellato.
«Sai cosa succede» proseguì Miró. «Wile E. Coyote se ne sta lì, in mezzo al deserto, lontano da amicizie e affetti, in perenne attesa di Bip Bip, in un paesaggio ridotto alle forme essenziali: i punti della sabbia, il piano del deserto, le linee geometriche dei canyon e delle montagne. È sconvolgente, sì, sconvolgente: seguire quei due è sconvolgente come vedere, in un cielo immenso, la falce della Luna che si alza o il Sole che la rincorre e la rincorre e la rincorre». Aveva la tendenza nevrotica a ripetere le parole, agitando le braccia in una modesta imitazione di Rocky.
«Per questo nei tuoi quadri dipingi minuscole forme che si muovono in grandi spazi vuoti».
«Già. Già. Già». Miró, sorpreso dall’acutezza dell’osservazione di Mondrian, s’interruppe per qualche secondo, ma ben presto si riprese. «Perché, capisci, capisci bene, che lo spettacolo dello spazio siderale fa sentire noi umani irrisori, insignificanti, inutili. Allo stesso modo il deserto disegnato da Chuck Jones mette in risalto la relatività delle vite melodrammatiche dei suoi eroi – con tutto l’apparato di appostamenti minuziosi e inseguimenti senza esclusione di colpi, idee geniali e fallimenti clamorosi, grottesche ritorsioni e vendette autolesionistiche, lanci di macigni con catapulte in precario equilibrio sulla punta acuminata di montagne altissime e cavalcate a dorso di razzi che esplodono, corse folli nella prateria e rovinose cadute in canyon abissali, precedute da patetici addii al mondo vergati su cartelli cui si rimane abbarbicati restando sospesi nel Vuoto per qualche ultimo, impossibile – impossibile! Impossibile! – istante».
Miró mimava come un tarantolato ogni gesto degli eroi di cartone che evocava, sotto lo sguardo freddo di Mondrian. Arrivato a questo punto senza fiato, dovette fermarsi. La sosta durò pochi attimi, appena il tempo necessario a riattivare una respirazione quasi normale.
«Ma è lo scenario – quegli spazi vuoti (Miró sferrò un potente jab a un refolo d’aria che gli aveva sollevato il fazzoletto intorno al collo), quegli orizzonti vuoti (un diretto, preciso, venne piazzato ai fianchi dell’impertinente fantasma), quelle pianure vuote (ancora un jab) – in cui avviene tutta questa agitazione scambiata per azione che mi ha sempre impressionato, come tutto quello che è spoglio e fermo, fisso, immutabile (saltelli intorno al corpo immaginario dell’avversario a terra)».
«È un buon modo per superare i limiti dell’arte tradizionale, che pure prendeva a modello il mondo naturale, sulla base però di un equivoco». Mondrian sembrava indifferente al fatto che Miró stesse salutando un pubblico immaginario con le braccia levate al cielo, in segno di vittoria, mentre muoveva le labbra simulando di urlare: «Adriana!!!».
«I colori della natura, il ritmo degli esseri viventi e le relazioni delle singole parti del tutto, tra loro esprimono un senso che non può essere risolto attraverso forme di rappresentazione della realtà che siano un mero adeguamento ai modi in cui essa appare. Occorre andare oltre il visibile» continuò a dire impassibile, con la pacatezza e il rigore di una logica inappuntabile.
«Proprio così. Proprio così. Proprioooo…. così!». Il catalano tirò ancora un paio di colpi all’aria, prima di concludere: «Il punto è questo, sì questo, questo: la realtà pura che viene espressa da Chuck Jones riducendo le forme naturali alle figure geometriche fondamentali e i colori a poche sfumature di quelli primari – se non unicamente a un polveroso giallo seppia – è l’estrema sintesi dell’immaginario mitico western: ne esprime l’intima Verità».