«Non riesco proprio a non essere in ritardo!»

«Hai messo in ginocchio le ferrovie di tutto il paese.»

«Ha nevicato tanto?»

«Tutto il giorno. E non smette.»

«Me la tieni un secondo?»

Mi passò il trolley, liberò una spalla dallo zainetto e spostandolo in avanti vi rovistò dentro. Ebbi qualche istante per osservare il suo cappotto di montone, gli stivaletti dalla suola alta e chiodata, i capelli castani raccolti sulla nuca, gli occhi incorniciati da una sottile passata di matita. Trovato un pacchetto avvolto in carta anonima, me lo porse.

«Ma dai, non dovevi.»

«La regola è che lo apri solo quando sono già andata via.»

«Quindi è una bomba.»

«Mettilo via e non pensarci più.»

«Perché non hai aspettato a darmelo?»

«Così. Per torturarti un po'.»

Chiuse gli occhi, inspirò profondamente e sorridendo disse: «Ciao».

Allargai le braccia per accogliere un abbraccio che non tardò: «Ciao».


Uscimmo dalla stazione, spaesati. Avevo atteso per quasi un'ora il suo treno e nel frattempo era giunta la sera. La luce, mutata completamente, si era sdoppiata nell'arancio dei lampioni e nel blu profondo del cielo. Mentre io cercavo un percorso praticabile, il suo sguardo danzava sulle facciate della città esprimendo una meraviglia inconsapevole, genuina.

«Dove mi porti?»

«Hai...»

«Tantissima!»

Ci dirigemmo verso un ristorante giapponese facilmente raggiungibile a piedi anche con una valigia, anche con la neve. Concentrato sui miei passi per non inzupparmi le scarpe, pensai a come tutto sia più giusto e bello sotto un manto bianco. Pensai a come la neve riesca subito a mettermi a mio agio, nonostante ci sia solo pochi giorni all'anno, e a volte nemmeno. Ruotando di poco la testa verso la ragazza che camminava come un equilibrista al suo primo giorno di lavoro, mi chiesi se anche con lei mi sarei sentito subito a mio agio, nonostante avessi modo di vederla solo pochi giorni all'anno, e a volte nemmeno.


«Mi piace molto qui.»

«Ci speravo. Beviamo qualcosa? Non so se in cucina siano già operativi.»

«Ma che ore sono?»

«È presto.»

«Magari prendiamo qualcosa da sgranocchiare insieme all'aperitivo? Come si dice "stuzzichini" qui da voi?»

«Keine Ahnung.»

«Bravo, fanne portare un bel po'.»

C'è un'apprezzabile differenza tra illuminare un ambiente che contiene dei tavoli e illuminare i tavoli che tale ambiente contiene. Nel locale dove ci trovavamo, ogni tavolo aveva una propria lampada che, pendendo dal soffitto alto, proiettava un cono di luce largo quanto bastava per creare un'atmosfera di intimità tra i commensali. Lo spazio tra un tavolo e l'altro risultava in penombra, un'oscurità non inquietante, ma al contrario avvolgente, rassicurante. In certi frangenti è la qualità della luce, prima che delle persone, l'elemento che maggiormente traccia la direzione di una conversazione. Come a teatro, le luci si affievoliscono e la concentrazione aumenta. Le chiacchiere si fanno bisbigli e i bisbigli talvolta soffiano segreti.

«Non so mai dire se il sakè mi piaccia o no. Lo bevo, va giù bene, ma è buono? Non saprei.»

«Di certo aiuta. Vuoi ancora qualcosa?»

«Sei matto? Scoppio.»

Si tirò indietro sulla sedia visibilmente soddisfatta della cena. La osservai, a mia volta compiaciuto.

«A cosa pensi?», mi chiese.

«Vorrei fotografarti.»

«Ne riparliamo tra quattro taglie.»

«Davvero.»

«E che foto faresti?»

«Foto che parlano di te, che ti ritraggono vulnerabile, che ti spaventano e ti rendono forte al contempo. Foto che se le riguardassimo tra dieci anni sapremmo esattamente dove eravamo rimasti e non avremmo bisogno di riempire il tempo raccontandoci del mio lavoro o del tuo viaggio in Rajasthan.»

«Ho sempre voluto visitare l'India.»

«Lo so, ma non l'hai ancora fatto.»

«Con il lavoro che ho...»

«Pensavo fossi io quello che parlava di lavoro.»

Abbassò gli occhi sul bicchiere di porcellana, fissandone le decorazioni.

«Dovremmo andarci insieme.» Un bisbiglio, un segreto.

Il mio silenzio dovette ridestarla perché sollevò la testa, probabilmente chiedendosi se davvero l'ultima frase avesse vinto l'intimità dei suoi pensieri, sfuggendo alle labbra. Restammo così per un po', intrecciati, appesi.

«Mi piacerebbe, ma con il lavoro che ho...»

«Che idiota.»

La risata che ci riportò a quel tavolo, in quel ristorante, divenne per entrambi il momento che avrebbe dato forma al ricordo di quella sera.

«È ora», disse con un sorriso di scuse.

«Già, è ora.»

Usciti dal ristorante, l'aria fredda risultò piacevole. La neve scendeva con una calma irreale, contrastando il turbine di pensieri che mi vorticava in testa. Mi sentivo ubriaco e distratto: in un attimo era tutto finito.

«Vorrei poterti dire quando potremo rivederci», confessò.

«Lo so, funziona così. Va bene.»

«Starai bene?»

«Certo.»

Ci salutammo con un altro lungo abbraccio e le nostre rotte tornarono a divergere. Infilai le mani nelle tasche del giaccone provando un'istantanea familiarità per quell'involucro avvolto in carta anonima.