Il nugolo di volatili si alzò dal peschereccio, sfrecciò sul litorale e con un volo a planare si diresse verso le cime merlate del Grand Hotel di Ariminum. Sintesi architettonica di Istanbul, Baghdad, Roma, Hollywood e di tutte le fantasie di opulenza sorte nella storia dell’umanità, l'edificio offriva uno spettacolo grandioso. I muri immacolati; i mobili francesi stile impero color tabacco; i divani beige, grandi come barche; la guida fiammeggiante che saliva curvando sulla gradinata di marmo verso lo sfolgorio di vetrate policrome; le finestre liberty che aprivano scorci di cielo fra i sempreverdi del parco… Ma quando Jay era entrato nella hall non aveva indugiato sui dettagli dell’arredamento: era stato rapito dalla ragazza seduta su uno sgabello nero molto alto – come il Brucaliffo di Alice sul suo fungo. A differenza del Bruco, aveva la testa china su un iPad Pro; simile a quello, invece del narghilè, con la mano destra reggeva una sigaretta fumante.
La donna sull’alto sgabello. Valeva la pena di osservarla. Avvolta nella luce pulviscolare che sgorgava da una bifora, sembrava una pin-up anni Sessanta ritratta da Paul Signac per la copertina della versione erotica di un romanzo di P.K. Dick. Era una di quelle bellezze che portano guai.
Si potrebbe obiettare che tutte le donne portano guai, ovunque. Soprattutto nei luoghi dedicati all’attività ginnica, sostiene con ottime ragioni Quintiliano. Bisognerebbe tenerlo a mente anche nelle occasioni in cui l’attenzione si focalizza su alcuni fattori di rischio. Nel caso specifico, due: le gambe della ragazza. Tempestate di tatuaggi etnici, si accavallavano sotto una minigonna inguinale. Erano gambe così espressive che Jay si rivolse a loro per sapere dove fosse il Capitano.
«Hai il torcicollo?» lo apostrofò lei, dalla vetta del trono su cui era assisa.
Lui diresse lo sguardo sopra il banco che aveva l’onere atlantico di farle appoggiare i gomiti.
La ragazza lo rimirava con uno sguardo verdeazzurro tanto splendente che sembrava piena d’occhi all’intorno e di dentro. Aveva anche un bel seno a goccia, sul quale riposava un ciondolo con il nome, Daisy. Jay si schiarì la gola e riformulò la richiesta. «Cerco il Capitano. Sai dove posso trovarlo?».
«Tu chi saresti?».
«Mi chiamo Jay. Jay Arthur Cab».
«Cab. Sei un taxista?».
«Ah, ah, ah». Troppo tardi Jay si accorse che non era una battuta. «No, non sono un taxista. Vorrei parlare con il Capitano. Sai dove posso trovarlo?».
Chissà per quale motivo la ragazza trovava tanto difficile rispondere a quella domanda. Si augurò che la terza volta sarebbe stata quella buona, prima che la conversazione si avvolgesse nelle spire di un andamento ciclico, proprio come accade ad Alice quando il Bruco le chiede: «E tu chi sei?».
Daisy prese un dépliant da una pila accanto a un busto di Bruto con l’espressione terrorizzata di chi ha visto uno spettro. Il foglietto riproduceva la mappa della palestra e riportava una frase in antico ariminense: Omnia gym divisa est in partes tres. Glielo porse. Quindi lo liquidò con uno sbrigativo: «Da quella parte».
Jay si avviò verso l’interno. Imboccò la rampa di scale a chiocciola che conduceva alla catacomba sottostante: un dedalo di saune, spogliatoi, vasche per l’idromassaggio, camere attrezzate con strumenti dall’aspetto allarmante. Ogni creazione è infinita produzione di infiniti: questa Verità gli si presentò con cartesiana evidenza quando si rese conto di essere tornato al punto di partenza, senza aver trovato traccia del Capitano. Jay non avrebbe saputo dire per quanti minuti – ore? – aveva vagato attraverso quegli spazi, vasti come l’immaginazione divina. La ricerca rischiava di trasformarsi in un loop senza fine. Pazienza: tanto, era andato lì solo per un saluto e una vodka. Avrebbe ritrovato l’amico – con il Roc, Maestro, il piccolo Ed, il Pescivendolo e tutti gli altri – più tardi, alla Fortezza Bastiani. Inoltre, dopo aver visto la ragazza, non era in vena di misticismo. Fece dietro front e tornò da lei.
Quella stessa sera, sui gradini all’ingresso del Grand Hotel, Jay e Daisy ballarono per ore, connessi alla vita segreta del parco, immersi nel sogno perenne e indifferente di alberi e piante. Le conifere cantavano. I bossi si scambiavano melodie. I semi prendevano decisioni sulle chiavi da usare. Il Wood Wide Web delle radici dettava lo spartito, dava il via agli assoli, controllava il tempo e lo spazio. Il ritmo della jam session era quello del pulsare delle onde sulla battigia, che arrivava attutito dai banchi di mucillagine. Un algo-ritmo.
Un fascio di luce invernale, sfiorandoli, non arrivava a violare la superficie liquida della piscina triangolare all’entrata dell’albergo, con quelle bordeggianti aiuole di crisantemi dai petali arricciati e neri che a Tim, il Custode, rammentavano i peli pubici di una falsa bionda.
«Se non fosse per la nebbia, potresti vedere la tua nave al di là della baia» disse Jay. «C’è sempre una luce verde che brilla di notte in fondo al pontile».