Cosa è successo?
L’ultima cosa che ricordo è l’impatto con l’acqua gelida, i vestiti che s’impregnano come spugne: zavorre che mi spingono sul fondo.
Dove sono?
Apro gli occhi, le pupille mi restituiscono una nebbia lattiginosa che brucia come acido. Poi il nulla.
Il ticchettio alle tempie è insopportabile. Non riesco a pensare, a ricordare. I polmoni si dilatano, e il dolore esplode come una scarica elettrica che attraversa ogni cellula, gli spasmi contraggono i muscoli, stritolano le ossa in una morsa.
Voglio solo che finisca, ma cosa? Il dolore? L’amnesia? La cecità? Il ticchettio?
Devo concentrarmi, ignorare le domande e la paura che sale dalle viscere. Devo riattivare i sensi e raccogliere dati, per capire, recuperare le risposte che la ragione reclama. M’impongo di regolare il respiro. Pochi minuti e il battito cardiaco si sincronizza su una frequenza quasi normale.
Ora il dolore arriva a ondate, come le doglie poco prima del parto. Tra un’onda e l’altra tento di aprire gli occhi. La palpebra destra obbedisce al comando, ma si ferma a mezza strada come una saracinesca unta male, un ingranaggio rugginoso che s’inceppa. La palpebra sinistra non vuole saperne: resta chiusa, come se presagisse l’orrore che mi aspetta. Provo a girare il capo, una fitta trapassa il cranio e si dirama sulle vertebre. Stringo la mandibola e il sapore del sangue aumenta la nausea.
Non posso cedere, non voglio morire senza sapere dove e perché. Ho bisogno del viatico di risposte alle domande che mi martellano sino al midollo. Con cautela schiudo la palpebra destra. Sono dentro una stanza che non ho mai visto. Dal tetto crepato pendono una lampadina attaccata a un filo elettrico lercio e due catene agganciate a uncini distanti un metro l’uno dall’altro. L’intonaco è staccato in diversi punti e agli angoli la muffa disegna strane figure astratte.
Tento di sollevarmi per osservare tutta la stanza, ma le braccia e le gambe non hanno presa sulla superficie viscida su cui sono sdraiata.
Piego il viso in avanti e quello che vedo è un sudario steso sulla parete di fronte: macchie rosse e marroni, scolature e grumi, e una poltiglia spiaccicata sul muro. Sono un medico, se potessi osservarli meglio sono certa che riconoscerei schegge d’ossa, pezzi di cervello e di altri organi umani.
Il miscuglio di sangue, escrementi e putrefazione rende l’aria irrespirabile. Devo vomitare, ma per farlo dovrei girare il capo, ed è uno sforzo che al momento non posso tentare. L’occhio mi brucia, cola lacrime e dolore. Lo richiudo per allontanare il disgusto.
Sento urla disperate, schiocchi, rumori metallici e spari.
Ora ricordo.
Siamo arrivati dopo il tramonto in un campo che credo si trovi a nord-est tra Al-Bayḍāʾ e Tobruk. Il camion è stipato di bambini, vecchi che si ostinano a fissare in basso e a sgranare sbiaditi misbaḥah per non perdere la conta e la speranza dei dhikr, e donne e uomini che per tutto il viaggio hanno evitato di guardarsi.
Ci fanno scendere e ci conducono verso un altro gruppo in attesa. Due uomini passano in rassegna la massa dei nuovi arrivati e indicano chi deve avviarsi verso il camion fermo a una decina di metri e chi deve risalire su quello che ha appena scaricato il carico umano. Pochi minuti e siamo tutti a bordo. Nessuno fiata quando i camion si avviano in due direzioni diverse.
L’autista si dirige verso un punto preciso. Credo si orienti con le montagne che si scorgono in lontananza.
Devo essermi assopita. Mi svegliano i violenti sobbalzi del camion. Abbiamo lasciato la strada sterrata e procediamo lungo un sentiero di terra appena battuta, probabilmente una nuova pista. Il carico umano è sbatacchiato, molti cadono addosso a quelli seduti sul fondo del camion, i bambini si svegliano terrorizzati e cercano i genitori nella calca di corpi aggrovigliati e dolenti che faticano a riprendere posto. Un ragazzo approfitta del caos per sfidare l’ordine del conducente e guardare fuori. Un vecchio gli afferra la mano e lo costringe a sedersi. Il ragazzo non fa in tempo a rivelare che ha intravisto un luccichio a un centinaio di metri, e l’oscurità è dilaniata dai fari di quattro Suv. L’autista accelera e in pochi istanti si ferma a quattro, cinque metri dai Suv. Chi può si alza in piedi con la speranza di scendere dal mezzo, sgranchirsi le gambe e respirare aria che non puzzi di vomito, sudore ed escrementi. Ma l’autista urla di non muoverci e l’ordine avvia la sinfonia di pianti, lamentele, gemiti e imprecazioni.
Due ragazzini si avvicinano e ci puntano contro i fucili. I vecchi smettono di lamentarsi, le donne di supplicare e gli uomini di maledire. Resta il pianto dei bambini a manifestare la fatica del viaggio.
Dopo qualche minuto l’autista torna in compagnia di due uomini. Osservano il carico e arriva l’ordine di ripartire: “un 80 da 15”. Nessuno comprende l’ordine, tranne un ragazzo che conosce il gergo degli scafisti: significa caricare almeno 80 persone su un natante omologato per trasportare non più di 15 adulti.
Ci siamo staccati dalla costa da almeno due ore, ma anche chi non è mai salito su un natante capisce che qualcosa non va. Il gommone è troppo lento. Il panico si diffonde quando il motore inizia a tossire un fumo denso che appesta l’aria. Lo scafista a prua fa segni ai tre a poppa. È il più giovane dei quattro scafisti, un ragazzo di circa vent’anni, forse meno, ma con l’espressione di chi è capace di tutto. È lui il capo, lo s’intuisce da come si muove e da come lo guardano gli altri scafisti. Estrae un cellulare da un sacchetto di plastica trasparente, di quelli che si usano per surgelare il cibo. Sussurra con le mani incrociate sul cellulare per attutire la voce. Resta in ascolto per qualche secondo. Gli altri fanno sempre più fatica a governare il gommone. Il capo comunica di aver ricevuto l’ordine di fare ritorno, che c’è uno scafo che li attende, saranno tutti caricati e riprenderanno il viaggio. È un messaggio in codice: significa che devono liberarsi del carico, che c’è un pattugliatore che li cerca, e con il motore in avaria non hanno alcuna possibilità di superare le acque territoriali. Nessuno gli crede. Un anziano urla che non ha senso tornare indietro, lo scafo può raggiungerli, trasbordarli e proseguire il viaggio.
Lo scafista ripone con cura il cellulare dentro la bustina di plastica. Il primo a cadere in mare è l’anziano. Ha inizio l’abbacchiatura. Gli scafisti colpiscono alla cieca. Non c’è tempo per scegliere i capi d’abbattere, ma i primi a cadere sono i più deboli e i bambini incapaci di risalire sul gommone, di costringerli a una doppia fatica.
continua...