Il capo degli scafisti si avvicina alla bambina di dodici, tredici anni, che sul camion mi stava appiccicata addosso. Quando siamo cadute sugli altri mi ha afferrato la mano e non l’ha più lasciata. L’ho vista cadere fuori bordo. Il suo urlo è sprofondato in acqua con lei. Non ho fatto in tempo a capire, ed è arrivato il mio turno. Sono caduta di fianco, ho provato a cercarla sott’acqua, ma era già sparita.
Il mio corpo affonda. Mi libero della pesante abaya di lana grezza e della sciarpa. Ora riesco a muovermi, ma non distinguo il fondo dalla superficie, non capisco in quale direzione nuotare. Il panico m’afferra come una serpe che attanaglia e paralizza la capacità di calcolo e di giudizio. Lo sento in bocca il sapore acre del terrore. Ho pochi secondi per decidere cosa fare, poi non avrò abbastanza lucidità ed energie: il cervello invierà l’impulso di respirare, l’acqua penetrerà nei polmoni e nello stomaco, la coscienza scivolerà nel coma profondo. L’arresto del respiro impedirà al cuore di battere, e sarà la fine. Dovrei accettare la morte, accoglierla con un senso di liberazione. Rivedrò mio padre e Nadir. Ma è il viso di mia madre quello che vedo. I suoi occhi sono il "no" più perentorio che io abbia ricevuto.
La carenza d’ossigeno rallenta il cervello, i muscoli si contraggono, il sangue si carica di tossine. Devo lasciarmi guidare dall’istinto di sopravvivenza. Non ho scelta: devo espirare un po’ d’aria, osservare la direzione delle bolle e seguirla.
La pressione dell’acqua moltiplica la fatica e la rabbia esplode, dilania e annienta il terrore. Il corpo è trafitto da miriadi di microscopici aghi, la colonna vertebrale si flette come un arco, il tronco si proietta in avanti e scarica energia su gambe e braccia. Ogni muscolo e osso, tendine e nervo riceve la spinta verso l’alto. Pochi colpi di reni e la testa è fuori dall’acqua.
Il volto proteso verso il cielo, la bocca spalancata, il cuore tambura tra le costole e sui timpani. L’aria brucia i polmoni come se respirassi per la prima volta. Non vedo la costa, ma i primi bagliori dell’alba mi confortano.
Devo sforzarmi di respirare con regolarità per controllare la nausea e le vertigini. C’è qualcosa a una distanza di venti, trenta metri che affiora e scompare tra le onde. Riconosco il velo, sembra una grande medusa dorata. Provo a raggiungerlo, urlo di aspettarmi, di muovere le gambe e le braccia. Quando lo afferro mi resta tra le mani. Il primo crampo mi afferra come una mano sotto la superficie dell’acqua, è il Kraken più temuto dai nuotatori. Rilasso i muscoli, eseguo respiri profondi, mi concentro sul movimento della scatola toracica e dell’addome. L’aria gonfia il tronco e lo solleva, le gambe scivolano sott’acqua. Espiro lentamente sino all’ultima particelle di anidride carbonica. Sono un corpo statico e per metà liquido immerso in una distesa liquida e dinamica. Le palpebre pesano, il cervello pesa, il dolore pesa. Dalla temporanea e volontaria cecità emerge il viso del dottore Almasi che spiega i diversi effetti dell’annegamento in acqua dolce, salata, fredda, clorata o contaminata. Sappiamo che una volta in acqua il corpo umano è sottoposto all’azione di due forze: la spinta idrostatica e la forza di gravità che agiscono in diversi punti. Archimede per primo ha osservato come la spinta idrostatica agisca sul metacentro, portando il corpo umano verso l’alto, a livello del tronco dove i tessuti sono meno densi e pesanti. Al contrario, la forza di gravità tira verso il basso sul centro del bacino, che è più pesante. Per far coincidere metacentro e baricentro basta piegare leggermente le ginocchia e lasciare le gambe sott’acqua. In questo modo le due spinte si compensano a vicenda e il corpo galleggia senza alcuno sforzo. Questo vi consentirà di riprendere fiato, di riposare quanto basta per raggiungere la riva o aspettare i soccorsi.
Mi sembravano nozioni inutili e tediose. Invece ora galleggio: un minuscolo corpo in balia dell'immensità. I crampi sono passati, i muscoli bruciano come fossero ustionati, ma il battito cardiaco e il respiro sono quasi regolari.
Sento il motore di un natante che si avvicina. Pochi minuti e mi issano sul pattugliatore. So che non escono in mare per recuperare i naufraghi, ma per evitare che restino testimoni sulle rotte degli scafisti.
La porta si spalanca e sbatte contro la parete. Dal tetto piovono frammenti d’intonaco che mi colpiscono sul viso e sulle gambe. È come se una lama mi trafiggesse la carne. Per non affogare mi sono liberata del jilbāb e dell’hijab, ma ho lasciato la tunica leggera, ne sono certa. Com’è possibile che l’intonaco cada sulle gambe nude?
L’istinto mi suggerisce di non muovermi, di non rivelare che sono sveglia. I due uomini urlano come dannati. Dalla direzione delle voci comprendo che sono fermi davanti a me: è la posizione migliore per spiarli, ma è anche la più pericolosa.
Socchiudo l’occhio destro quanto basta per vedere: uno è girato di spalle. L’altro urla una raffica di “no”, poi colpisce l’altro sulla spalla. Per un attimo vedo il suo viso: un teschio su cui le belve hanno lasciato un po’ di pelle essiccata e poca carne. È un membro dell’equipaggio del pattugliatore.
Ho gli occhi serrati e non vedo chi dei due mi afferra per una gamba e mi scaraventa sul pavimento. L’ultima cosa che sento è il catarroso borbottio di un rantolo. Ma non ho il tempo di chiedermi chi è che agonizza.