Lasciammo l’appartamento di Corso Italia nel dicembre 2007, ma avevamo iniziato a smontare gli arredi e a imballare le suppellettili già da alcuni mesi, per cui, in quella grigia mattina del trasloco, il distacco dalla casa - il nostro primo nido -, che per sette anni aveva assistito alla nostra felicità, fu l’atto finale di un progressivo abbandono. Una cupa determinazione ci aveva spinto e nessun ripensamento ci aveva bloccato. Iniziammo dai quadri, che impacchettammo con la plastica a bolle (e già si percepiva l’ombreggiatura sui muri che ne segnava l’assenza), proseguimmo con la legna del camino, che regalammo a un amico (e la casa ci sembrava più fredda), continuammo con le tende del soggiorno (e il paesaggio cittadino, non più filtrato dal velo sottile che sbiadiva i colori e dissolveva il peso del mondo, ci appariva più crudo). Non ci fermammo davanti ai soprammobili (radiosi ricordi di viaggi in paesi lontani), di fronte alla televisione, alla lampada ad arco e allo stereo. Armati di cacciavite e brugola smontammo il letto e l’armadio della cameretta di Matilde, dalle pareti azzurrine, decorate con nuvole di panna montata e con il Piccolo Principe in volo, aggrappato ai fili tirati da uccellini con le ali spiegate. Non ci stancammo di numerare gli scatoloni ed elencarne il contenuto su un foglio a parte, che si trattasse di vestiti, lenzuola, scarpe, libri, stoviglie e piccole cose inutili cui eravamo in qualche modo legati.
E quando anche il frigo era stato svuotato, ogni scatolone sigillato, e la ditta dei traslochi aveva ammassato e trasferito sul cestello con il braccio elevatore le nostre cose e l’appartamento era tornato nudo e desolato come nel giorno in cui l’avevamo visitato per la prima volta, Adele e io ci guardammo negli occhi con un sorriso di mesta soddisfazione e di tacito ringraziamento.
Nell’estate successiva vendemmo la casa al mare, in Maremma, un bilocale in un gruppo di villette a schiera. Là, invece, le cose si sistemarono in fretta: già dalla primavera l’agenzia immobiliare aveva trovato un acquirente, una coppia sui sessanta, entrambi sorridenti e pieni di premure tra di loro, nello stridente contrasto con la nostra malinconia. Si mostrarono subito entusiasti della casa, arredata con i mobili IKEA, che lasciammo, e le pareti bianche un po’ spoglie. Ci bastò un fine settimana per liberare la cucina e la camera dai pochi accessori e indumenti di cui è dotata una casa per le vacanze. Nel garage – si era depositata della sabbia – ritrovammo i giochi da mare di Matilde: un cigno e un coccodrillo gonfiabili, un secchiello, una palla, due palette, tre o quattro formine, che regalammo a una coppia di vicini con due bambini.
Nel dopocena di quel fine settimana ci recammo per l’ultima volta sul mare e ci arrampicammo sull’altura che domina la baia, com’era consuetudine fare nelle lunghe giornate estive per interrompere la monotonia della spiaggia. Il buio era sceso da poco, sedevamo su una roccia piatta, meta di altre soste, protetti alle spalle dai rilievi più alti, mentre davanti si apriva la tenebra immensa del mare. Solo poche luci segnavano la costa. In quei momenti, nella brezza notturna, interrompendo un silenzio che gravava su di noi, Adele confidò il suo cruccio al pensiero della nostra casetta, di cui conoscevamo ogni segreto (gli arredi che ci avevano reso confortevoli le vacanze, gli utensili che avevamo impugnato, gli odori che avevamo respirato aprendo la finestra al mattino alla vista dei campi e, in lontananza, del mare luccicante) e confessò il senso di vuoto per il distacco da quelle cose, e al pensiero che altri, al nostro posto, le avrebbero usate e ne avrebbero goduto. Forse per esorcizzare questo dolore, quasi una sorta di cura omeopatica, nacque in lei l’idea di visitare case e luoghi abbandonati da altri, desiderio che io dichiarai di voler esaudire senza neanche pensarci.
La prima meta fu Ercolano, l’abbandono per eccellenza, la città pietrificata, la più viva tra le città morte. Camminavamo per quelle strade lastricate, dagli alti marciapiedi, strette tra case a due piani e le vedevo percorse da uomini con la toga, donne con anfore, servi con asini, commercianti che magnificavano i cibi del termopolio. Entrando nelle abitazioni, magnificamente conservate, indugiavamo sui mosaici e sugli affreschi. Ci turbò il ritratto di donna, senz’altro la padrona di casa, che, violando il tempo, ci interrogava con lo sguardo.
L’anno successivo visitammo il paese sommerso dal lago di Vagli, in Garfagnana, che in via eccezionale era stato svuotato. La diga era una muraglia inutile a guardia del villaggio fantasma, autentica Atlantide. Un terreno arido, spaccato, grigio, risuonava sotto i nostri passi. Grigi i ruderi delle case, che custodivano storie di abbandono. Già borgo medievale di fabbri originari del bresciano, il paese contava un centinaio di anime quando venne sommerso, settant’anni fa. Quelle stesse anime, di fabbri, lavandaie, pastori, vagavano in cerca delle loro case. Confesso di avere scorto una donna a una finestra senza vetri, con le braccia conserte, com’era uso un tempo al calar della sera.
In questi lunghi anni abbiamo visitato molti luoghi abbandonati: borghi deserti aggrappati alla roccia, castelli diroccati, villaggi disabitati di miniere in disuso. Abbiamo posato le mani su muri che altre donne e uomini avevano toccato, ammirato affreschi che altri occhi avevano guardato, spiato esistenze tramandate dagli oggetti che possedevano. Da archeologici improvvisati quali siamo, abbiamo dissotterrato solo tracce, frammenti, scaglie di vita.
Innumerevoli foto, poi, ha scattato Adele, e ci sono immagini di straordinario nitore, altre che inquadrano un particolare irrilevante, e quelle che cercano di catturare il ricordo, l’attimo, che più di una presenza indagano un’assenza, un qualcosa che non c’è o su qualcuno che non ha più né volto né voce. Nei primi anni incollava le foto su album corredandole di minuziose didascalie, in seguito è passata alle foto digitali salvate sull’hard disk, infine fotografava poco o niente: si era arresa davanti alla lacunosità della conoscenza.
E quando pensavo che si fosse allentata in lei l’attrazione per questi singolari viaggi, affievolita questa curiosità un po’ macabra, e fossi finalmente salvo, propose, nel mio smarrimento, di visitare appartamenti in vendita, scegliendoli non tra quelli vuoti, ma tra quelli i cui arredi lasciavano intuire la vita di chi li aveva vissuti.
Mentre ignari agenti immobiliari ci portavano in visita all’appartamento decantandone lo spazio, la luminosità e il buono stato, Adele andava in cerca di indizi, che coglieva dal tipo di mobilio, dai titoli dei libri sugli scaffali, dalle foto e dai quadri. Con falsa noncuranza faceva domande sul motivo della vendita, e ora le veniva risposto, non senza imbarazzo, che era a causa della separazione di una giovane coppia (si capiva dallo stile moderno e informale della casa), ora ci veniva riferito di una famiglia numerosa in cerca di una stanza in più (era chiaro dal letto a castello e dalla roba affastellata), oppure di un single trasferitosi altrove per motivi di lavoro (evidente dall’arredamento spoglio e casuale). L’ultimo appartamento che visitammo aveva mobili vecchi e fuori moda, una cucina logora, soprammobili di dubbio gusto. In una camera il letto era provvisto di sponde. Sul comò erano allineate alcune foto con cornici di diversi materiali e dimensioni. Ricorreva l’immagine di un'anziana signora di robusta corporatura, affiancata da un uomo o da una donna sulla quarantina, o da altre persone. In una cornice in plexiglas, la stessa signora sorrideva a una bambina sui cinque anni, seduta sulle sue ginocchia. Subito mi colpì la straordinaria somiglianza con Matilde. Con tutto il cuore sperai che Adele non se ne fosse accorta, e le toccai la spalla, con leggerezza, per distoglierla e invitarla a proseguire nella visita. Adele rimase immobile scrutando la bambina della foto, ma poi, con un rapido sguardo, mi implorò di andare via. Ci congedammo dall’agente immobiliare e in macchina non scambiammo una parola.
Si aprì una terza fase, dopo le città disabitate e le case in vendita. Adele si mise in testa di ricercare la bambina della foto. Si intestardì in questa volontà opponendo mutismo e astio al mio invito al buon senso. Il nostro rapporto si stava incrinando e dovetti acconsentire. Chiedemmo informazioni all’agenzia immobiliare, suonammo ai campanelli dei vicini dell’anziana signora, facemmo telefonate accampando scuse o fingendo conoscenze. Alla fine, l’attività investigativa fornì nome e indirizzo: la bambina si chiamava Giada e abitava a Roma. La mamma era la figlia della signora.
Prendemmo il Frecciarossa, una mattina pallida di marzo, e un taxi ci condusse a destinazione. La bambina era a scuola, a quell’ora, disse la portiera del condominio, subito prodiga di particolari. Ci indicò la strada per la scuola. Ci arrivammo in anticipo, aspettammo il suono della campanella e ci opponemmo al flusso dei bambini che sciamavano, nel rincorrersi di voci e risate. Subito Adele la riconobbe, le corse incontro e chiese alla mamma, incredula, che la teneva per mano, se poteva abbracciarla.
Tornammo a casa per cena. Quella notte, a letto, Adele si girò verso di me – la scorsi nella penombra, non riuscivo a prendere sonno – e allungò un braccio per cercarmi. Approdò sulla barba.
- La chiameremo Giada.