La guardia giurata spalanca la porta in uscita e dal collo taurino e mal rasato erompono un nome e l’ordine arrochito dal tedio di un rito che si ripete uguale da millenni: mi segua.
Il pubblico in attesa nel vasto corridoio obbedisce a un movimento simile alla fuga sincrona di un branco di sardine attaccate dagli squali.
Le teste girano a destra e a manca in cerca del chiamato.
Da una delle panche si leva una donna. Nessuno l’ha notata, e persino la guardia l’osserva come fosse sbucata fuori da un muro.
È alta e veste un abito scuro che rende più austeri l’aspetto e i tratti del viso.
La guardia giurata spalanca la porta in entrata: un vortice di pulviscolo anima l’aula e la invade dell’aria malsana che stagna nel corridoio del tribunale. Un miscuglio di paure e sudori ghiacci si uniscono allo scricchiolio dei battenti che sbrecciano il muro. Minuscoli pezzetti di vernice e polvere cadono sul pavimento e s’attaccano alle suole degli imputati. I passi si fanno scivolosi e incerti, ma non per la signora. Lei avanza con sicurezza verso il banco degli imputati. Il suo ingresso tacita il pubblico in aula, accorso come a uno spettacolo di piazza.
Solo la guardia è immune da tanta bellezza: ha perso il senno e la sensibilità nella miriade di farse processuali, e ormai crede che nulla valga più di un buon sigaro e una bottiglia di whisky.
Dietro il banco, tre giudici osservano la donna e per un attimo scolora dai visi la sicumera di chi crede di amministrare la giustizia dalla parte dei giusti.
Non ci sono il pubblico ministero né il difensore: nessuno ad accusare o difendere la coscienza umana.
Confuso dall’inatteso ingresso, il cancelliere si avvicina alla donna: “Giuri di dire la verità tutta la ver....”. Si rende conto dell’errore, arrossisce anche sul palmo delle mani e tace.
Questo è il processo all’essere umano e l’imputata non ha l’obbligo di dire la verità e tantomeno di giurare. Mentire è un suo diritto, anzi, potrebbe persino rientrare tra le strategie difensive. Ma, se lo facesse, non sarebbe lei a subirne le conseguenze.
Il cancelliere siede e tace per tutta la durata del processo.
Il primo a prendere la parola è il giudice seduto al centro: un uomo anziano e tarchiato, che fissa la donna con un sorriso mellifluo stampato sulle labbra. Gli occhi sono due fessure tra palpebre enfiate. Non arriva con i piedi per terra e le sue scarpe sospese a una decina di centimetri dal pavimento, susciterebbero l’ilarità del pubblico, se non fosse uno degli uomini più temuti. Si volge verso la donna, la unge con uno sguardo che cola lascivia.
Lei lo ignora e fissa davanti a sé.
Il togato si agita sulla sedia. Nonostante incuta timore, le gambette che s’agitano a mezz’aria percuotono l’aula di risatine appena soffocate. L’uomo batte con rabbia il martelletto sul banco e il suono ligneo tacita gli astanti.
Il giudice si volta verso gli altri togati con l’aria di chi prepara l’attacco.
Lo spazio è la sua ossessione: ciò che non può essere conquistato dai meriti deve essere ghermito con forza.
È così che perora l’inveterata causa umana, il potere che detta legge e devia il corso della giustizia.
Sul lato sinistro siede il secondo giudicante: ha l’aspetto livoroso di chi ha identificato l’artefice e la causa di tutti i suoi fallimenti.
Lo chiamano il “censore”, non perché punisca gli abusi, gli eccessi e le infrazioni, ma perché condanna chi ha ciò che a lui difetta.
Il tempo è la sua ossessione, giacché per quanto dicano sia galantuomo, a lui ha reso le stesse pene.
È così che perora la causa dei perdenti: è sempre colpa di qualcun altro, dunque la vendetta è sempre lecita.
Sul lato destro siede un giudice dall’aspetto dimesso: somiglia a un ventriloquo, o meglio, a una remora che s’attacca all’ospite. Non ha ambizioni né sogni, si accontenta di cibarsi di scarti e avanzi altrui.
L’inettitudine è il suo marchio e non perora altra causa che lasciare ad altri la fatica di scegliere.
Il silenzio in aula è assoluto.
Una voce deflagra:
“Declini le sue generalità.”